La scrittrice iraniana Mahsa Mohebali è sbarcata in Italia, per partecipare al Festival letterario «Incroci di civiltà», a Venezia. L’occasione è la pubblicazione del suo libro Non ti preoccupare (Ponte 33, pp. 120, euro 14, traduzione di Giacomo Longhi): il romanzo, che solo ora arriva nelle librerie italiane, è stato un grande successo in Iran dove è all’undicesima ristampa e ha venduto quasi cento mila copie. Mohebali ha vinto per due volte il premio letterario Golshiri, una volta il prestigioso Fajr con L’amore a piè di pagina e fa parte dell’International Writing Program (Università dell’Iowa): un network di scrittori di tutte le parti del mondo che spesso le fanno visita in Iran.
Nonostante la censura e i servizi segreti la abbiano accusata di sovversione dopo la pubblicazione di questo romanzo, Mahsa Mohebali non ha smesso di scrivere e sta già lavorando al suo prossimo libro, che forse verrà pubblicato prima all’estero e poi in Iran. L’abbiamo incontrata per un’intevista a Milano.

A Tehran fervono i festeggiamenti per l’accordo sul nucleare. Che ne pensa?
Ci ho sperato tanto. Vorrei solo non fosse un’intesa generale, che non andrebbe da nessuna parte, come è avvenuto in passato.

Viaggia molto tra l’Iran e gli Stati uniti. Ma vuole sempre tornare a Tehran. Eppure, con lei, la censura iraniana non è stata molto magnanima…
La censura rende più creativi. Con questo libro mi hanno accusato di aver ideato le proteste del 2009 contro la rielezione di Ahmadinejad. Ma, in realtà, io ho scritto e pubblicato il libro in Iran nel 2008, quindi addirittura prima che avvenissero.

In qualche modo avevano ragione perché lei descrive una Tehran completamente sconvolta da un terremoto. Nelle ore in cui la terra trema sembra che tutto sia possibile. Il terremoto sisma, in fondo, può essere considerato una sorta di metafora della rivoluzione…
Certo. Quando scrivevo non avevo in mente i fatti del 2009. Ma tutti hanno pensato che così fosse. Tanti amici e anche alcune radio francesi mi chiamavano per chiedermi se avessi ispirato io gli eventi stessi. Sicuramente, ero stata una attenta testimone di Tehran in quegli anni della seconda presidenza di Ahmadinejad. Era come una pentola a pressione.

Nel suo romanzo si avverte la bellezza di quella città e dei suoi abitanti, a cominciare dal giovane Babak…
Tehran è una città bellissima, ma è molto difficile viverci. Per questo ho voluto immaginare cosa sarebbe potuto succedere se ci fosse stato un terremoto. È vero che il personaggio principale di questo romanzo è Tehran stessa, anche l’illustrazione della copertina di Iman Raad non è altro che una mappa stilizzata dei quartieri della mia città.

Il testo è stato per tre anni tra le mani di un primo traduttore italiano che, alla fine, ha deciso di non concludere il lavoro proprio per il linguaggio scurrile utilizzato. Come ha fatto ad aggirare la censura con un linguaggio così colloquiale, di tutti i giorni, con inserti in inglese e in tedesco?
Credo che la lingua non sia solo un mezzo per scrivere un romanzo. Ho scelto un registro colloquiale perché i protagonisti sono giovani che non vogliono farsi capire dai genitori. Dopo la scrittura del primo manoscritto, l’editore mi ha chiesto di rivedere il testo, eliminando tanti insulti e espressioni scurrili per renderlo pubblicabile e io ho accettato che lo facesse.
Eppure nei paragrafi – dai rumori ai sapori, fino al poster di Che Guevara macchiato di sangue – traspare uno stile poetico, riconducibile alla tradizione persiana, non è così?
La lingua persiana vanta grandi poeti, da Mullawi a Hafez, da Khayyam a Shamlu fino a Forough Farrokhzad. Ma io cerco il più possibile di non scrivere in stile poetico. Eppure la lingua persiana contiene di per sé questa qualità e si avverte sempre un senso poetico nella prosa persiana. Quello che mi ha influenzato nella suddivisione dei paragrafi è però più un senso di musicalità. È qualcosa che mi appartiene, perché per anni ho studiato musica.

Non mancano i riferimenti al rock persiano dei Kiosk, alla musica di Namjoo. Eppure qualche mese fa è bastato che dei giovani girassero un video in cui alcune ragazze danzavano senza velo sui tetti di Tehran per mandare la censura su tutte le furie. Quei giovani sono stati in prigione per settimane…
La musica in Iran è proibita per una certa lettura dell’Islam dettata dagli ayatollah. È quindi concepita solo come un momento molto triste, non per gioire. Per dieci anni , le Facoltà di musica sono state chiuse ed è rimasta solo la musica classica iraniana, non quella europea. Ricordo che anni fa succedeva ancora che se i giovani avessero tenuto in macchina cassette musicali, la polizia religiosa avrebbe potuto chiedere di che genere di musica si trattasse: ascoltare ritmi proibiti, in Iran, è diventata una forma di protesta. Nonostante tutto ciò, i giovani ascoltano qualsiasi tipo di musica.

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Nel romanzo c’è spazio per il mercato nero di droghe. Si è occupata del tema anche in «L’amore a piè di pagina» (2004). È forse una delle prove della separazione tra vita pubblica e privata che costantemente si vive in Iran tra spazi interni e spazi pubblici?
Certo, conduciamo due tipi di vite. In casa, sembra di stare a Los Angeles, mi è capitato di vedere ragazze girare in casa in alcune feste in bikini, tanto che alcuni amici stranieri mi chiedevano: «Ma siamo in Iran?». Negli spazi pubblici, le donne invece devono portare il velo, le coppie non possono scambiarsi baci.
Siamo abituati a vivere così. E in casa si fa spesso uso di alcol e droghe. In Iran sono sanzionati gli spacciatori, non chi fa uso di droghe. È molto semplice perciò procurarsele, per le autorità più i giovani sono sballati più sono controllabili. Le dosi spesso sono meno care del pane. Non solo, Europa e Stati uniti danno soldi all’Iran per bloccare il contrabbando di sostanze stupefacenti. In realtà, l’oppio che viene dall’Afghanistan poi resta nel paese e deve essere pur usato…

«Non ti preoccupare» è una saga familiare dove si intrecciano i rapporti tra nonna e nipoti, fratelli e sorelle. C’è qualcosa della sua infanzia?
Forse c’è qualcosa della mia famiglia, ma non solo. Ho tratto ispirazione dalle famiglie in crisi. Se la società vive una crisi, anche le famiglie esplodono. Sono partita dal personaggio di Shadi per poi descrivere tutti i suoi parenti e, in terzo luogo, la società iraniana.

Nel libro ci sono tanti riferimenti ai giovani, alla loro quotidiana battaglia per accedere ad internet, uno dei segni della modernità delle nuove generazioni…
Gli iraniani aggirano i divieti sui social network con l’uso di filtri. Così si connettono al mondo e respirano più aria. Per le proteste del 2009 e del 2011, i cellulari sono stati essenziali. Ma le società pubbliche hanno tagliato le linee per impedire l’organizzazione delle proteste.

Eppure, nel suo libro, dopo il terremoto è arrivato il caos. Nella realtà, secondo lei, le cose potrebbero andare diversamente se l’esperimento moderato di Rohani dovesse funzionare?
Mi piacerebbe che la città finisse in mano ai giovani generazioni. Eppure le proteste del 2009 non hanno avuto un seguito, gli studenti erano senza guida, senza un partito e le proteste non hanno portato molto lontano.
Purtroppo non sono ottimista come negli anni Novanta con l’ex presidente, Mohammed Khatami. In Iran sono attivi poteri paralleli, a partire dalle fondazioni che non vogliono che le cose cambino.