È l’incontro più atteso ma, salvo miracoli, non produrrà nulla. Non sarà un faccia a faccia: alla cena di stasera a Bruxelles, nella sede della commissione europea a palazzo Berlaymont, Conte si presenterà scortato dal responsabile dell’Economia Tria. Troverà ad attenderlo, al tredicesimo piano, non solo il presidente della commissione Juncker ma anche il vicepresidente Dombrovskis e il commissario all’Economia Moscovici. Non è escluso che si sieda a tavola anche Moavero. Più che un colloquio sarà un summit: dal quale saranno però assenti i veri capi del governo, Salvini e Di Maio. Basterebbe questo a garantire il fallimento della «cena di lavoro» come la considerano, così sminuendone il peso, a Bruxelles.

Alla vigilia la parola chiave è dialogo. Vuole dialogare Moscovici che scrive sul suo blog: «La mia porta è sempre aperta. Si può trovare un accordo». Vuole dialogare Conte, che alla Camera non ha escluso la possibilità di «rimodulare la manovra». Pasdaran a parole del dialogo è anche Di Maio. Peccato che si tratti di un dialogo tra sordi. Nel lungo intervento sul suo blog il commissario francese ripete la requisitoria contro la legge di bilancio italiana, insistendo sul feticcio del deficit al 2,4%, scelta che contraria un po’ persino Colle che preferirebbero un maggior interesse per la qualità invece che per la quantità. Sulla sponda opposta

Di Maio ha spiegato da Piazza Pulita, che per lui «rimodulare» vuol dire cercare nuove entrate, non limitare le uscite e che comunque le riforme della discordia non si toccano né si discute il loro varo dall’inizio del 2019. Salvini, poi, chiarisce le allusioni di Conte al fattore tempo: «Se fossi a cena chiederei a Juncker rispetto e 12 mesi di attenzione. Conte ha il mandato di dialogare, rasserenare e spiegare». Traduzione: dateci un anno per testare la nostra ricetta. Se non funziona se ne riparla, «ma sanzioni, minacce, ricatti, ritorsioni no». Su questa base tanto varrebbe che i commensali di stasera si accontentassero di un panino al volo da McDonald’s.

Di tutto questo il capo dello Stato è consapevole. Perché allora dà tanta importanza a un incontro che pare votato al fallimento? Semplicemente perché il Quirinale ritiene, con cognizione di causa, che al di là delle apparenze proprio i vertici della commissione siano oggi i meno rigidi con l’Italia, i più disponibili o a un accordo o a una linea morbida in caso di sanzioni. I buoni rapporti, una certa fiducia reciproca, la conoscenza diretta in questi casi contano. Si evidenzia qui l’assurdità di un confronto dal quale, sin dall’inizio, sono assenti i veri protagonisti, quelli che in Italia hanno il potere di decidere. È una follia condivisa: la commissione ha evitato di coinvolgere i vicepremier per evitare una sorta di «riconoscimento politico» dei leader populisti. I medesimi non hanno insistito più che tanto perché, a loro volta, preferiscono non dover riconoscere l’autorità della commissione. Il risultato è che le vere parti in causa si parlano solo a colpi di dichiarazioni pubbliche.

Quanto di più controproducente. Dunque lo scontro con Bruxelles proseguirà inalterato anche dopo l’ammazzacaffè a palazzo Berlaymont. Il riflesso sullo spread, ieri in calo, della crisi con l’Europa sullo è evidente e lo indica ufficialmente anche Moody’s. Parlare di «mercati» come se questi non fossero influenzati dalle tensioni politiche è puro inganno. I conti di Bankitalia, notificati ieri, dicono che l’innalzamento dei tassi sui titoli italiani «rischia di vanificare l’impulso espansivo atteso dalla politica di bilancio». Il costo dello spread, 5 mld nel 2019, 9 mld nel 2020, divorerebbe insomma proprio quegli effetti positivi che il governo si aspetta dalla manovra.

Lo scontro con l’Europa e la tensione sui mercati sono in realtà fronti intrecciati, ma se gli effetti del conflitto richiedono tempo per dispiegarsi quelli derivati dal fronte dei mercati incombono. Per questo il ministro Savona morde il freno. Ieri ha negato l’intenzione di dimettersi, attribuitagli dal Corriere della Sera, ma pare davvero convinto che lo spread debba essere fronteggiato modificando la manovra, il che non significa necessariamente arretrare. I leader, ufficialmente, non gli danno retta ma non è escluso che Salvini consideri invece le parole del mentore economico con attenzione. Di certo ha chiesto ai suoi ufficiali di mantenere la calma perché «bisogna comunque arrivare al varo della legge di bilancio». Poi inizierà un’altra partita.