«Un nuovo capitolo politico, di relazioni internazionali equilibrate, dopo una guerra imposta». È quel che hanno chiesto ieri i Talebani, nel corso della prima cena con diplomatici stranieri a Kabul. Incontro che serve a celebrare un mese di piena sovranità, a 30 giorni esatti dal ritiro dell’ultimo soldato statunitense dal Paese, avvenuto nella notte tra il 30 e il 31 agosto 2021.

«IL NOSTRO GOVERNO vuole buone relazioni con le altre nazioni del mondo. Se ci sono problemi, vogliamo risolverli attraverso il dialogo. Invitiamo tutti i governi a riaprire le sedi diplomatiche». Così ieri mullah Abdul Ghani Baradar si è rivolto al parterre di diplomatici stranieri e rappresentanti delle agenzie internazionali rimasti a Kabul dopo la fuga e l’evacuazione di fine agosto. I diplomatici – rappresentanti di Pakistan, Cina, Uzbekistan tra gli altri, ma anche Deborah Lyons, a capo della missione dell’Onu di cui è stato prolungato il mandato – sono stati accolti dallo stesso Baradar, vice-primo ministro, e dal ministro degli esteri mullah Amir Khan Muttaqi. I quali hanno voluto mandare un segnale di unità e coesione interna, dopo le recenti voci sui dissidi tra l’ala degli Haqqani e lo stesso Baradar, rappresentante della vecchia guardia del Sud.

LA CENA, accolta con particolare favore dall’ambasciatore del Pakistan, Mansoor Ahmad Khan, serviva però anche per chiedere l’inizio di un «nuovo capitolo politico», come sostenuto dal ministro Muttaqi per conto di un governo di fatto, ma senza nessun riconoscimento formale. I Talebani lavorano per ottenerlo, perlomeno dai Paesi della regione, che però ancora temporeggiano.

Ma sui quali i turbanti neri contano almeno per sbloccare l’impasse finanziaria. L’economia è in caduta libera, il sistema bancario vicino al collasso, il Paese affronta una gravissima crisi umanitaria e non c’è liquidità. I Talebani hanno fretta. La stessa di chi opera per risolvere la crisi umanitaria.

SENZA SOLDI PER PAGARE stipendi e servizi, specialmente nel settore sanitario, si aprirà una «immane crisi umanitaria», ha dichiarato ieri il direttore regionale della Croce rossa internazionale. Per Alexander Matheou, i prossimi mesi saranno estremamente difficili, a causa dell’abbassamento delle temperature e degli effetti della siccità che colpisce da mesi alcune province, in particolare nel nord-ovest del Paese.

L’ACCESSO AL CIBO, hanno ricordato nei giorni scorsi i funzionari della Fao, è già un problema per la maggior parte della popolazione: il 93 per cento delle famiglie non ha sicurezza alimentare. I prezzi dei beni essenziali sono aumentati del 30/40 per cento. Una tendenza cominciata nel 2020, quando le misure adottate dai Paesi della regione in funzione anti-Covid hanno interrotto le catene di rifornimento, con la chiusura temporanea dei confini. Catene importanti per l’Afghanistan, la cui economia dipende dall’import: abbigliamento, medicine, beni primari. Si importa da fuori perfino il grano con cui si fa il pane (dal 20 al 40 per cento del totale) e il 27 per cento del riso consumato.

LA CROCE ROSSA internazionale, riporta l’Associated Press, chiede con urgenza 38 milioni di dollari per poter continuare a finanziare le cliniche sanitarie e i servizi d’emergenza in 16 province. Lo stesso Alexander Matheou ha ricordato che ci sono circa 2000 cliniche che non funzionano più e 20,000 addetti alla sanità (di cui 7.ooo donne) che non ricevono lo stipendio.

Tanto che ieri Jan Egeland, segretario generale del Norwegian Refugee Council, ha inviato una lettera al segretario dell’Onu Guterres e al presidente della Banca Mondiale David Malpass, affinché il Trust Fund dell’Onu riprenda i pagamenti dei salari pubblici – insegnanti, operatori sanitari, ingegneri idraulici, etc – con i fondi ora congelati della Banca mondiale.

Parte del problema dalla decisione di Washington di congelare, dopo l’arrivo a Kabul dei Talebani, le riserve della Banca centrale afghana, circa 9 miliardi perlopiù custoditi alla Federal Reserve di New York, e dal congelamento dei prestiti da parte della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale.

LE AGENZIE DELL’ONU spingono affinché ci sia un’iniezione di liquidità nel Paese per evitare il collasso strutturale, ma il blocco «euro-atlantico» intende usare la leva finanziaria per ottenere concessioni dai Talebani. I quali per ora devono accontentarsi dei 30 milioni di dollari promessi da Pechino e del primo carico di aiuti arrivato mercoledì dalla Cina, accolto a Kabul dall’ambasciatore cinese e dal ministro per i Rifugiati, esponente delle rete Haqqani.

Mentre Talebani e Cina contestano la violazione dello spazio aereo afghano da parte dei droni degli Stati Uniti, l’Onu fatica a far mantenere le promesse: il 13 settembre, durante la conferenza ministeriale convocata dal segretario generale Antonio Guterres, sono stati promessi 1,2 miliardi di dollari. Finora è arrivato soltanto il 22 per cento della somma promessa. Sembrano vuote anche le promesse di Baradar: ai «nostri cittadini» promettiamo «vita felice, prosperità e progresso», ha detto ieri.

Ma alle 6 ragazze che protestavano davanti alla scuola femminile di Kabul Rabia Balkhi contro l’esclusione delle ragazze dalle scuole è stato impedito con la forza di manifestare. Torna finalmente libero, dopo tre settimane di reclusione, il fotografo Morteza Samadi, arrestato mentre dava conto di una manifestazione femminile a Herat.