Salvini e Di Maio non ci saranno alla cena di stasera a Bruxelles. Però ci tengono a far conoscere all’ospite i e ai convitati Dombrovskis e Moscovici il loro non secondario parere. Quindi dichiarano a raffica: un fuoco di sbarramento in piena regola. Il leghista illustra il suo parere su quota 100: «Nessuno né da Bruxelles né da Marte mi convincerà a non cambiare la Fornero. Non ci sarà nessun maxiemendamento. I capisaldi della manovra restano quelli che sono».

Di Maio rilancia: «Il reddito non si tocca e quota 100 è solo l’inizio. L’obiettivo è quota 41 di contributi. La Ue è contro di noi per motivi politici. I mercati si tranquillizeranno dopo l’approvazione della manovra». Conte, a cui tocca l’ingrato compito di cercare un dialogo impossibile, si ritaglio uno spazietto angusto: «Mai pensato di rinunciare alle riforme qualificanti. Abbiamo solo parlato di eventuale rimodulazione ma realizzeremo la manovra proprio come la abbiamo impostata». «We are friends, non litighiamo», ha detto prima di sedersi a tavola e stringendo la mano al suo ospite davanti ai fotografi. Rifiutando però qualsiasi domanda.

QUELLA «RIMODULAZIONE» possibile è davvero poca cosa, soprattutto a fronte delle richieste europee. Vuol dire qualche aumento delle entrate, un gioco di prestigio sui fondi per le due riforme chiave usati come vasi comunicanti, qualche lieve spostamento di fondi e forse, sempre che Di Maio sia d’accordo ma al momento non lo è, uno slittamento dei tempi per sborsare qualcosa in meno l’anno prossimo. Giochi da contabili. La commissione non può accontentarsi e Conte lo sa bene.

Tuttavia non è solo per formalità che insiste sulla necessità di «negoziare a oltranza nell’interesse sia dell’Italia che dell’Europa». La trattativa possibile è sulle forme e sui tempi delle sanzioni che il premier italiano e il ministro dell’economia sanno essere a questo punto inevitabili. Ma sanno anche, e se non se ne fossero accorti da solo glielo ha spiegato il presidente Mattarella, che su quel fronte Juncker e Moscovici sono meno rigidi di molti governi dell’eurozona e dell’Unione. Quando ripetono di non volere una Europa senza Italia, neppure loro lo fanno per formalità. Le offerte italiane non sono tali da evitare la procedura d’infrazione, ma saranno utili per riattivare il dialogo sull’esito della stessa. Da questo punto di vista, inoltre, l’incontro di ieri sera non è l’approdo ma solo l’avvio di una trattativa che proseguirà per mesi.

Il governo italiano chiederà, come preannunciato da Conte nell’aula di Montecitorio e poi confermato da Salvini, tempo: un anno o almeno sei mesi prima di affibbiare la mazzata. È un’esigenza che si spiega con tre motivi distinti: la convinzione che dopo le elezioni le «condizioni ambientali» saranno comunque più favorevoli, per il possibile esito del voto ma anche, se non soprattutto, perché le esigenze della propaganda elettorale non spadroneggeranno più, perché se i risultati della manovra fossero a quel punto tangibili l’intero quadro cambierebbe e anche perché la tregua allenterebbe la tensione sui mercati e allontanerebbe il rischio di crisi del sistema bancario.

Ma non è solo questione di tempistica. La procedura per debito invece che per semplice deficit può implicare una richiesta di rientro dal debito in tempi relativamente brevi che significherebbe a tutti gli effetti un commissariamento. È uno spettro che il governo italiano deve fugare già in partenza. La commissione è relativamente disponibile. Pur potendo dimezzare i tempi della procedura non pare intenzionata a farlo e quanto alle sanzioni avrebbe in animo di limitarsi a una richiesta di correzione massiccia, tanto da recuperare l’arretramento dovuto alla manovra, però senza infierire oltre.

CI SONO PERÒ DUE SCOGLI che non sarà facile superare. Il primo è l’autonomia solo parziale di Juncker e Moscovici. Se Conte e Tria devono rendere conto delle loro scelte ai capi della maggioranza, senza il cui semaforo verde non possono muoversi, i commissari a un passo dalla scadenza devono trattare con i governi dell’eurozona, meno malleabili di loro. Il secondo scoglio però è il più minaccioso: anche la punizione «morbida» basterebbe ad affondare il reddito di cittadinanza e quota 100. Non è affatto detto che, anche in una situazione così estrema, Salvini e Di Maio siano disposti a farlo.