L’ultima condanna della Corte di Strasburgo all’Italia per il caso delle violenze subite dai detenuti del carcere di San Sebastiano di Sassari solleva «molteplici e diversi» problemi di quel sistema sul quale Matteo Renzi e il Guardasigilli Orlando hanno appena annunciato una riforma in 12 punti auspicando di aprire nel Paese un lungo dibattito pubblico. Rodolfo Sabelli, presidente dell’Associazione nazionale dei magistrati, accetta l’invito a uscire dal «derby ideologico» che preclude il confronto. «D’accordo con il presidente del Consiglio – dice – si abbandoni qualunque atteggiamento pregiudiziale che si fonda sui luoghi comuni e che vede la difesa corporativa laddove invece il legittimo interesse di categoria coincide anche con gli interessi generali».

Presidente Sabelli, i giudici di Strasburgo ancora una volta bacchettano l’Italia perché, detta in poche parole, non è stata capace di garantire una giustizia giusta. Ma non c’è anche un problema “culturale” di vicinanza eccessiva tra i corpi di polizia e la magistratura inquirente? La separazione delle carriere risolverebbe o acuirebbe il problema?

Non ho letto a fondo la sentenza, ma mi sembra che in questo caso non ci sia stata alcuna disattenzione della magistratura inquirente o giudicante. Mi soffermerei invece su alcuni molteplici e diversi nodi che vengono evidenziati e che poi coincidono in parte con quelli già elencati ieri sera (lunedì sera, ndr) dal premier Renzi. La lunghezza dei processi, l’efficacia dell’azione giudiziaria, l’adeguatezza della risposta sanzionatoria. Bisognerebbe studiare il caso specifico per capire quali sono i motivi per cui il processo si è allungato molto ma il problema ha un carattere generale e riguarda sia il civile che il penale. E tra le tante cause, la più importante sta nell’azione combinata dell’impugnazione e della prescrizione come è prevista nell’attuale disciplina, la legge ex Cirielli che va senz’altro riformata. Anche il giudizio sull’inadeguatezza dell’azione disciplinare o penale sollecita la necessità di riconsiderare la reale efficacia del nostro sistema sanzionatorio che è troppo centrato sulla pena detentiva, spesso inflitta ma inapplicata, piuttosto che su sanzioni pecuniarie, interdittive o patrimoniali che sarebbero spesso molto più efficaci. La separazione delle carriere invece è un problema molto serio che richiede una valutazione complessa: uno dei motivi della nostra contrarietà sta nella tutela della cultura della giurisdizione, che è anche cultura delle garanzie e che deve continuare ad appartenere sia al pm che al giudice. Solo in questo modo chi fa le indagini si proietta anche nella prospettiva processuale. Inoltre, staccare il pm dal resto della magistratura solleva il problema della natura di questa figura, e desta forti preoccupazioni sull’autonoma e sull’indipendenza.

È questa una delle 12 priorità della riforma annunciate da Renzi e Orlando. Le condivide o sembrano anche a lei solo «pannicelli caldi», come ha detto il presidente della commissione Giustizia del Senato Nitto Palma?

Il metodo adottato dal presidente Renzi mi sembra condivisibile: stiamo parlando di una riforma ambiziosa e perciò è indispensabile seguire un metodo fondato sull’ascolto di tutti i soggetti interessati e sul confronto prima di aprire la fase decisionale. Nel merito, occorre da parte mia una certa cautela: in generale i temi individuati sono quelli rilevanti, a partire dalla necessità di smaltire i procedimenti civili pendenti valorizzando strumenti deflattivi come l’arbitrato e la negoziazione assistita. Strumenti che possono funzionare se sono previsti una serie di incentivi a percorrere la via stragiudiziale. Prevedendo interessi di mercato e non legali: per esempio applicando gli interessi bancari sulle spese legali da pagare. In questo modo i tempi processuali sicuramente si accorcerebbero. Ma in generale bisognerà vedere poi il testo delle riforme.

I tempi lunghi dunque sarebbero un problema di abuso del processo e non di organizzazione del lavoro dei tribunali?

I problemi sono tanti, ma di abuso del processo parla anche l’ultimo decreto legge, il 90/2014, quello sull’età pensionabile dei magistrati.

Renzi ha invitato a deideologizzare il dibattito. Lei accoglie questo invito?

Sono d’accordo a uscire dal «derby ideologico», come l’ha chiamato Renzi qualche settimana fa. Per esempio sulle correnti del Csm si dice: bisogna procedere per meriti e non per appartenenza. Ma al centro della nostra riflessione abbiamo sempre messo appunto il tema della trasparenza. L’esercizio dell’autogoverno è una cosa seria ma è anche uno strumento che si realizza nell’autonomia e nell’indipendenza.

Renzi dice: responsabilità civile su modello europeo…

Che è molto variegato: nei Paesi anglosassoni non è prevista, in altri Paesi europei il modello è meno incisivo di quello italiano. Questo è uno degli argomenti da «derby ideologico», appunto. Attenzione a quando si parla di errori giudiziari: ogni parte di un processo potrebbe sentirsi vittima di errore. E anche il Consiglio d’Europa dice chiaramente che va esclusa l’azione di rivalsa diretta sul giudice perché paralizzerebbe qualunque processo, sarebbe una forma di intimidazione in prevenzione che impedisce l’autonomia. Ecco, una riforma così non si può fare a suon di blitz come quelli a cui abbiamo assistito alla Camera con l’emendamento Pini.