In questi giorni si torna a discutere di ricollocazione dei migranti nei vari paesi europei come se si trattasse di fardelli di cui distribuire il peso. Anche nel vertice di Parigi del 18 maggio sul finanziamento delle economie africane i paesi membri e le istituzioni centrali dell’Unione europea hanno esercitato rinnovate e forti pressioni sugli stati dell’Africa settentrionale e subsahariana perché trattengano gli emigranti nei loro confini. Tali politiche di chiusura e respingimento si sono del resto andate sempre più intensificando, specie a partire dal 2016 con l’estensione delle operazioni dell’agenzia Frontex nel controllo delle migrazioni.

Invece tutti i dati disponibili dimostrano i vantaggi ed anzi la necessità di favorire l’accoglienza ed integrazione di un numero ben maggiore di immigrati rispetto ai flussi attuali.

La prima necessità riguarda la correzione di uno squilibrio demografico divenuto insostenibile a detta della stessa Commissione. Infatti entro 8 anni nei 27 paesi dell’Ue più la Gran Bretagna una persona troppo anziana o giovane per lavorare dipenderà da 1,5 persone in età lavorativa. Un numero di lavoratori troppo ridotto per reggere il carico di tutti gli altri. La sproporzione, già negli ultimi anni, ha inciso negativamente sui principali servizi sociali: sanità, pensioni, istruzione. E tale squilibrio, che già prima del Covid, si prospettava insostenibile, si può correggere solo promuovendo flussi migratori molto più consistenti di quelli attuali.

La seconda è che i Paesi meta dei migranti hanno bisogno della loro offerta di lavoro in quantità crescente. Infatti in diversi settori produttivi la manodopera occorrente non è più fornita in misura sufficiente dai lavoratori autoctoni. Questo riguarda certamente molti lavori poco qualificati nell’agricoltura, industria e servizi. Tuttavia il fenomeno concerne pure impieghi più specializzati. Altro che sottrazione del lavoro ai nativi!
In terzo luogo, gli immigrati nati all’estero, ma regolarmente censiti rappresentano una risorsa per i bilanci statali. Infatti l’ammontare delle tasse e contributi che essi versano sopravanza nettamente le spese che comportano. E ciò vale anche se s’includono le spese sostenute per respingerli o detenerli nei campi di «accoglienza» per valutarne il diritto d’asilo o provvedere al loro rimpatrio. Allora come spiegare l’ostinazione in politiche di respingimento dei migranti, cieche ed autolesioniste?

Fino ai primi anni ’90, nei paesi più industrializzati leggi restrittive dell’immigrazione erano funzionali al supersfruttamento di questa manodopera ed alla sua strumentalizzazione nello spingere al ribasso le condizioni generali del mercato del lavoro. Ma da quegli anni la delocalizzazione produttiva nei paesi con forza lavoro a bassissimo costo ha raggiunto proporzioni notevoli e in continuo crescendo fino al raggiungimento nel 2019 del 56,6 % del Pil in Francia, del 45 in Germania, del 28 in Italia, del 69 in Gran Bretagna. Alla delocalizzazione massiccia s’è sommata l’automazione spinta della produzione dovuta alla microelettronica. Automazione che, oltre a ridurre drasticamente la manodopera occorrente, ha ulteriormente favorito la delocalizzazione consentendo l’impiego di manodopera non qualificata, del tutto intercambiabile e perciò tanto più precaria.

Questi fatti hanno inciso notevolmente sul mercato internazionale del lavoro peggiorando le condizioni d’impiego anche nei Paesi più sviluppati e depotenziando notevolmente la capacità contrattuale pure di quei lavoratori. Sicché la strumentalizzazione degli immigrati a questo scopo ha perso incidenza ed utilità. E per i gruppi dominanti è diventato doppiamente utile dare ad intendere che il peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita di una parte crescente della popolazione è da imputare agli immigrati.