Non è una novità che l’arte italiana nei primi cinquant’anni del secolo scorso partecipò alla nascita in Europa dei nuovi linguaggi delle avanguardie artistiche distinguendosi con propri contributi originali. Altrettanto si può dire per le arti decorative, artigianali e industriali. La mostra Dolce vita? Du Liberty au design italien, 1900-1940 al Musée d’Orsay (fino al 14 settembre, poi a Roma al Palazzo delle Esposizioni) non fa che riconfermare questa tendenza «innovativa» nel presentare oggetti, arredi, sculture e molti dipinti in una raffinata e ben calibrata mise en scène dell’Atelier Mendini. Chi però dalla mostra s’attende particolari novità sul piano storico-critico riguardo gli artisti di quegli anni, prima e durante le due guerre, rimarrà deluso perché l’esposizione parigina è solo un’elegante e autoreferenziale vetrina promozionale, come sempre più spesso accade nelle esposizioni museali.

Per comporla Guy Cogeval e Beatrice Avanzi si sono valsi di Irene de Guttry e Maria Paola Maino, fondatrici a Roma degli Archivi delle Arti Applicate Italiane del XX Secolo, autrici di saggi sul mobile Liberty e Déco e studiose che, come avrebbe detto Rossana Bossaglia, sono tra quelle «persone che vanno scartabellando» per scoprire storie e materiali in collezioni private e case d’asta. Dobbiamo dunque essere loro riconoscenti se oggi possediamo una più vasta conoscenza sulle arti decorative italiane. Un impegno lodevole, che solo in parte ha potuto supplire alla latitanza delle istituzioni pubbliche, causa prima della perdita di un patrimonio artistico del quale, per troppo tempo, non è stato compreso il valore culturale.

Assenze deprecabili

In un intervento sul catalogo della mostra (Skira), Cogeval ricorda infatti che in Italia permane il problema di stilare l’elenco delle ultime acquisizioni del Musée D’Orsay: «Un sontuoso pannello decorativo di Vittorio Zecchin, preziosi mobili di Eugenio Quarti e Federico Tesio». Sono opere che ritroviamo nella prima sezione della mostra e che partecipano a quella «Stagione del Liberty» insieme agli arredi di Carlo Bugatti e al lampadario forgiato in ferro da Alessandro Mazzucotelli, anch’essi del museo parigino. Se ciò non bastasse al termine della mostra è sufficiente scendere ai piani inferiori del museo e percorrere le sale della collezione permanente per accorgersi cos’è una collezione pubblica sulle arti decorative che si rispetti, quella che auspicava Bossaglia e che fece scrivere a Pontus Hulten: «La mancanza di una grande collezione nazionale di arte italiana del Ventesimo secolo è deprecabile» (Arte Italiana, Presenze 1900-1945, Venezia 1989).

La mostra parigina è suddivisa per movimenti artistici: Liberty, Futurismo, Metafisica, Novecento e Realismo magico, Astrazione e Razionalismo. È scontato che nel contenuto spazio espositivo e nei modi di organizzarlo l’intenzione dei curatori sia stato il coup de théâtre. La necessità di semplificare ha inoltre avuto come effetto la rinuncia a segnalare che le storie della nostra modernità sono più complesse e articolate, a volte sovrapponibili, di quelle messe in mostra. Nulla di drammatico se l’obiettivo era il piacere visivo dato dalle opere. Dubbi però vengono dalle tesi espressa nel catalogo laddove sono individuate nelle arti decorative italiane durante il fascismo il solo spazio artistico nel quale persistono (romanticamente) un «vero e reale libero arbitrio» e una diffusa «spensieratezza» (insouciance) mentre avanza, sotto la dittatura con le sue leggi coercitive, la modernizzazione del paese. Una tesi sostenuta anche da Giovanni Klaus Koening che negli anni Trenta aveva scritto che in Italia c’era «un’aria di felicità e di speranza» che «riusciva a ingannare la maggioranza degli italiani, inguaribilmente superficiali».

Nell’ultima sala della mostra, quella dedicata all’Astrazione e al Razionalismo, gli oggetti di Baldessari e di Pagano, i mobili di Terragni e di Lingeri raccontano una fase eroica delle arti decorative prima che il linguaggio razionalista, ricco di valori e contenuti, si consumasse nella disillusione di una rivoluzione mancata e tutto rifluisse nello Stile ‘900. È inoltre parziale presentare ciò produssero artisti e artigiani nel primi quaranta anni del Novecento come una materializzazione di una «joie de vivre» in totale autonomia dai conflitti e dalle contraddizioni dalla società.

Modernizzazione tardiva

Durante il governo Giolitti e il fascismo – che spinse l’acceleratore della modernizzazione attraverso un vasto programma di opere pubbliche dove centrale fu il ruolo giocato dall’architettura – le arti non furono svincolate dai processi di industrializzazione del paese. Né furono esenti dalle influenze esercitate dal gusto della borghesia, che emulò ciò che era già accaduto in altri capitali d’Europa (in primis Inghilterra e Germania).

Il «carattere italiano» dell’arte è dunque qualcosa di più articolato e complesso da quanto emerge dal catalogo della mostra. Né è assolutoria di tale semplificazione la domanda retorica «può esistere un periodo di creatività straordinaria mentre la nazione corre verso la catastrofe?». Per quanto riguarda il Liberty andava ricordata una distinzione tra un primo periodo (Ernesto Basile, Secretaire, 1902), dall’impronta internazionale, e un periodo più tardo, che guardava invece alla tradizione (Duilio Cambellotti, Conca con bufali, 1910). In pittura gli stilemi del liberty-floreale sono si riconducibili a quelli dell’affiche di Leonardo Bistolfi per l’Esposizione di Arte Decorativa Moderna di Torino (1902) – troppo riformista e «decorativamente antieroica» (Rosci) per non essere spodestata, di lì a poco, dall’irrequieta palingenesi meccano-futurista di Marinetti –, ma non è del tutto estraneo a questo stile il simbolista Segantini (L’Amore alle sorgenti della vita, 1896). Allo stesso tempo, sarebbe stato opportuno, vista la presenza di Previati (La Danza delle ore, 1899), trovare uno spazio per Adolfo de Carolis, che tra orientalismo e giapponismo (Vittorio Zecchin) e gusto Secession (Luigi Bonazza), avrebbe dimostrato come il Liberty non è rappresentabile come una esperienza omogenea, intrecciata com’è con aspetti simbolisti e divisionisti.

Le assenze sono però molte e non conviene soffermarsi oltre sul grado di semplificazione delle sale successive. In quella del Futurismo, al di là della coloratissima Sala da pranzo (1918) di Balla e il tappeto di Depero sottostante il tavolo, poco si dice sul contributo eccezionale che il movimento diede per quella «ricostruzione» che, prima che universale, è stata domestica, come testimoniano le Case dell’Arte (Ducrot e Ghini a Firenze, Bragaglia a Roma) e le Case d’Artista (Balla) ispirate alle esperienze europee secessioniste.

I pochi elementi in mostra permettono solo in parte di comprendere la progettazione globale futurista: il tavolino basso di Evola, i mobili profunzionalisti di Thayaht, le terracotte di Diulgheroff. I futuristi presero alla lettera quanto disse il critico Roger Fry affinché si ricorresse agli «artisti contemporanei nella progettazione di mobili e tappezzerie». Quello che i futuristi si prefiggevano era l’unità delle arti ma non andarono oltre il declamarlo attraverso manifesti e interventi culturali. Casorati fu forse l’ultimo, come testimonia la Sala da pranzo (1926) progettata per la sua casa di Torino, a cimentarsi nell’interior design negli stessi anni del teatrino privato che l’artista ideò con Sartoris per l’industriale Gualino. Sono stati infatti soprattutto gli architetti a occuparsi di arti decorative e di design, ovvero di produzione seriale per l’industria.

Eccessi figurativi

La mostra concede una forte visibilità solo a Ponti. A segnalarne la prolifica attività di designer una cospicua serie di vasi, urne e piatti in maiolica e ceramica della Richard-Ginori, tra i quali eccelle il Centrotavola per l’Ambasciate d’Italia in porcellana bianca e oro (1926-27) eseguito con Tomaso Buzzi. Per l’occasione poteva essere considerato qualche oggetto della manifattura francese Christofle giacché Ponti ne fu direttore artistico oltre il progettista della casa «classicista» del suo proprietario Tony Bouilhet. Diversi oggetti pontiani compaiono inoltre nelle sale della Metafisica, ma è un’evidente forzatura poiché le arti decorative hanno avuto poco a che fare con quella poetica. Non a caso vi domina la pittura: De Chirico, Morandi, Savinio.

C’è in questa mostra un eccesso di arti figurative, trascurando così il fatto che gli anni Venti, con l’Exposition des Arts Décoratifs et Industrielle di Parigi nel 1925, viene sancito l’avvento dell’Art Déco: variegata confluenza di linguaggi segnati dall’esasperato geometrismo come dai superlativi cromatismi. Un orientamento del gusto borghese che si esaurirà di lì a poco nel rigore morale ed estetico del Movimento Moderno e nell’emancipazione del prodotto industriale.