Regole, leggi, consuetudini e buon senso hanno abbandonato la politica e le sue istituzioni. Solo per memoria ricordo che la Legge di Stabilità non dovrebbe trattare norme di delega, di carattere ordinamentale e misure di natura localistica e microsettoriale. Nonostante il vincolo legislativo, il governo ha proposto una Legge di Stabilità “precaria” e polverizzata in tante misure quante sono le policy da soddisfare, alimentando gli appetiti dei deputati che possono, tra le pieghe della stessa legge di stabilità, trovare il loro momento di gloria.
Molti emendamenti saranno esclusi dalla discussione in aula per manifesta incompatibilità con la legge di bilancio, ma rimane il nodo irrisolto della politica economica pubblica e del suo ruolo nell’ambito della politica economica generale del paese. Per alcuni versi, la politica economica e l’economia pubblica hanno divorziato, lasciando uno spazio inedito alle peggiori pulsioni dei governi e dei deputati che si ritrovano a gestire quel che rimane del divorzio.

Sicuramente l’austerità europea, con tutti i suoi vincoli, è un bel guaio, ma questi vincoli dovrebbero favorire una maggiore capacità di scelta tra i provvedimenti possibili. I tre mila e passa emendamenti dei deputati, quasi tutti di maggioranza, le misure aggiuntive che il governo intende inserire nella Legge di Stabilità, sono lo specchio fedele dello stato caotico delle nostre preziose istituzioni. Sorprende anche il silenzio, forse malessere, di alcuni componenti del governo che continuo a stimare. Penso che potrebbero, almeno, ristabilire il buon senso.
La stampa in generale, molti talk show inizieranno una discussione interminabile sugli emendamenti. L’oggetto della discussione sarà il singolo emendamento, la copertura finanziaria. Tra le misure delineate dal governo e dai deputati possiamo trovare tutto e il contrario di tutto. Provo solo a fare alcune esemplificazioni che rappresentano bene lo stato caotico delle istituzioni e del divorzio tra economia pubblica e politica economica. La Tuc (tributo unico comunale), l’imposta proposta dal Pdl che dovrebbe sostituire l’Imu sulla prima casa, in sostituzione della Trisi avanzata dal governo, esenta anche la casa posseduta a titolo di proprietà o di uso frutto, le case assegnate ai coniugi o ai figli minori.

In altre parole la proprietà non sarà soggetta a tassazione, mentre i cittadini dovranno farsi carico delle minori entrate; l’allargamento della no tax area, emendamento del Pd e del Pdl, che porta da 8 mila a 12 mila euro la soglia di esenzione d’imposta. Se di primo acchito la proposta sembra sensata, è appena il caso di ricordare che negli studi di settore molti imprenditori considerano un reddito lordo di 13 mila euro come plausibile. Combinatolo con l’elusione e l’evasione fiscale e comprenderete chi potrebbe essere il vero beneficiario dell’aumento della no tax area; la rimodulazione del cuneo fiscale via riduzione del reddito di riferimento per beneficiare del taglio dell’Irpef, assieme al rafforzamento della dote per la detassazione del salario di produttività.
Il beneficio per il lavoro dipendente era così modesto, 7 euro al mese, che qualcuno ha provveduto a suggerire dei cambiamenti, ma il senso della misura rimane sempre lo stesso, mentre la dote per la produttività, quando il paese ha perso il 20% del proprio tessuto produttivo e con gli attuali livelli di cassa integrazione, sembra proprio una presa per il cuneo. La cessione di parte del demanio pubblico, le spiagge, per un contro valore tra i 5-10 miliardi, dovrebbe stimolare gli investimenti nel turismo. In altre parole si concede una rendita, non certo lo sviluppo del turismo che necessita di investimenti legati all’ambiente, al patrimonio archeologico e paesaggistico.
Tra i tanti emendamenti, forse uno ha un senso. Il suggeritore è Massimo Mucchetti (Pd) e l’emendamento obbligherebbe all’Opa (offerta pubblica d’acquisto) per chiunque acquisisca il controllo di fatto della società obbiettivo anche con quote inferiori al 15%. Emendamento giusto, ma non dovrebbe (deve) trovare spazio nella Legge di Stabilità perché la legge, vale ripetere, non si occupa di queste materie.

Come si può vedere, gli emendamenti e la Legge di Stabilità precaria, che ha concorso alla crescita degli interessi particolari residuali, non si misurano con il necessario e conosciuto link tra economia pubblica e politica economica. Siamo all’interno di interessi particolari che poco hanno a che fare con la ragioneria, fosse pure di colore europeo, dei conti pubblici in pareggio. Almeno la ragioneria ha una sua dignità nel dare e avere.
Il divorzio tra economia pubblica e politica economica si manifesta plasticamente nella distanza tra il contenuto della Legge di Stabilità, gli emendamenti e le rivendicazioni di tutte, a proprio tutte, le parti sociali del paese. Possiamo essere d’accordo o meno con la lettera d’intenti di Confindustria e Cgil-Cisl-Uil di settembre, ma in fondo reclamava una politica economica adeguata. Il governo quasi quasi manifestava fastidio, con il primo ministro Letta pronto a consigliare: fidativi di noi, vedrete che entro la fine dell’anno ci sarà crescita, concorrenza, redistribuzione del reddito e investimenti.

La Commissione europea, l’Istat, l’ufficio studio del senato, si sono incaricati di riportare con i piedi per terra il governo. La crescita, sempre che di crescita economica si possa parlare, non sarà superiore allo 0,7%. Il ministro Saccomanni continua a sostenere che per il 2014 non sarà inferiore all’1%. Tutta la Legge di Stabilità si regge su questa ipotesi. Se salta, saltano i conti pubblici.

Il paese vive una crisi che è peggiore e più lunga di quella del ’29; il Pil, a parità di potere d’acquisto, ha perso 20 punti percentuali; il tessuto produttivo si è ridotto del 20%; il tasso di disoccupazione reale è al di sopra del 20%; gli investimenti sono crollati verticalmente in ragione della scomparsa di parte del tessuto produttivo; il reddito primario, cioè quello prima delle imposte, non è mai stato così sperequato a favore della rendita (in senso lato); i dipendenti pubblici hanno perso il 10% del reddito, via blocco della contrattazione, permettendo un “risparmio” di 6 miliardi di euro.

In una situazione del genere era necessario fare scelte di politica economica e sviluppare una politica pubblica all’altezza. L’Europa ha condizionato i saldi di finanza pubblica con degli avanzi primari che riducano la domanda aggregata senza precedenti nella storia recente del paese, ma il divorzio tra politica e paese reale ha reso le politiche europee peggiori di quelle che sono.

Suggerisco un appello: provate a recuperare il buon senso e ascoltate il paese. Provate a fare politica.