«Non ho dubbi, la gran parte degli ordini esecutivi di Obama su Cuba hanno i giorni contati», ha sostenuto martedì l’influente deputato repubblicano Mario Díaz-Balart.

Altri parlamentari esponenti storici dell’anticastrismo della Florida, Mario Rubio, Ileana Ros-Lehtinen e Carlos Curbelo, hanno suonato la stessa musica, dicendosi convinti che col presidente Donald Trump «tutto sarà assai differente». E che gli Usa ingraneranno la marcia indietro, tornando ai tempi di el presidente Bush, quando la politica della Casa bianca verso l’Avana la decidevano in gran parte in Florida.

Díaz-Balart ha motivato tale convinzione: fin dalla vittoria del magnate nelle presidenziali, vi sono stati molti incontri tra l’ala dura dei deputati repubblicani della Florida e «alti esponenti» dell’entourage e dell’amministrazione del presidente Trump che si sono espressi a favore del mantenimento dell’embargo economico contro Cuba.

Nei giorni scorsi, il portavoce della Casa bianca ha confermato che vi sarà un cambiamento di linea rispetto a Obama e alle sue aperture nei confronti dell’isola. Ma il presidente Trump non si è ancora espresso su questa materia.

Un silenzio, quello del magnate, al quale si somma una grande cautela da parte del vertice politico dell’Avana. Il presidente Raúl Castro, intervenendo al recente vertice della Celac, la Comunità degli stati dell’America e dei Caraibi, ha affermato che Cuba è disposta a continuare il dialogo con il nuovo leader della Casa bianca su un terreno di parità e rispetto della sovranità nazionale.

Il governo cubano ha poi tenuta fissa la barra del timone su una posizione di attesa dei fatti più che di reazione alle parole. Anche se dure e di chiusura come quelle pronunciate da Trump verso il Messico e più in generale America latina, con le minacce di misure protezioniste e di uscire dal Tpp, trattato commerciale col Pacifico.

Josefina Vidal, la diplomatica cubana che ha guidato le trattative con l’Amministrazione Obama, si è limitata a mettere in chiaro che Cuba non si fa intimidire dai tuoni provenienti dalla squadra di Trump.

«Le aggressioni, le pressioni, i condizionamenti e nemmeno le imposizioni funzionano con Cuba», ha affermato, ricordando che ben 11 presidenti prima di Trump ci hanno provato, inutilmente. «È troppo presto» per avere chiara la linea del nuovo presidente.

«Si tratta di un personaggio capace di dire qualsiasi cosa, ma nessuno sa bene quello che farà», ha rincarato Ricardo Alarcón, ex ambasciatore cubano all’Onu e ex presidente del Parlamento.

Da parte sua, Rafael Hernandez, direttore della rivista Temas, ritiene che «l’istinto per gli affari di Trump» prevarrà rispetto alla linea delle minacce e della chiusura. Vidal aggiunge che i risultati delle trattative seguite alla visita all’Avana di Obama nel marzo dell’anno scorso – 23 visite di delegazioni statunitensi di alto livello, 51 riunioni tecniche, 12 accordi stipulati in aree che vanno dalla cooperazione sull’ambiente e sui viaggi aerei alla salute e alla lotta alla droga e altri 12 in via di conclusione, per non parlare del raddoppio dei «turisti» americani che hanno raggiunto quota 285.000 – sono troppo consistenti per essere tagliati con un colpo di spada.

«Il governo cubano sta cercando di abbassare il livello della polemica ideologica per attestarsi su una linea pragmatica», afferma l’accademico Esteban Morales. «Se fosse in vita Fidel, la reazione sarebbe stata differente: sicuramente il lider maximo avrebbe criticato le prese di posizioni razziste e fascistoidi di Trump», sostiene un altro polititologo.

Secondo Fernando Ravsberg, giornalista e autore di uno dei blog più stimati, la cautela dell’Avana si spiega con ragioni economiche: Cuba l’anno scorso si è svenata per ripianare i debiti col Club di Parigi: secondo l’ex ministro dell’economia José Luis Rodríguez il governo ha sborsato 5.299 milioni di dollari per la prima tranche.

Una cifra impressionante che ha lasciato il paese con problemi di liquidità. Inoltre la Controlaria generale de la Repubblica, alla quale il presidente Raúl ha affidato la lotta all’inefficienza e alla corruzione nel settore pubblico, ha informato che l’anno scorso solo nelle imprese ispezionate sono state registrate «perdite» valutate a 90 milioni di pesos (circa 4 milioni di euro) e 50 milioni di dollari.

Una radiografia impietosa. Che dimostra come Cuba necessiti di investimenti stranieri per dare impulso allo sviluppo. E dunque che difficilmente possa prescindere dalla distensione con gli Usa.