Due sono le malattie comunemente associate con l’età medievale: la peste e la lebbra. Si tratta di morbi il cui solo nome genera terrore, sebbene si tratti di affezioni che appartengono al passato; peraltro, peste e lebbra sono estremamente differenti fra loro. La prima (la Yersinia pestis dal nome del medico Alexandre Yersin che ne isolò il batterio alla fine dell’Ottocento – contemporaneamente dal giapponese Kitasato Shibasaburo, ma separatamente) ha colpito il continente europeo due volte, nel VI e poi nel XIV secolo, rimanendo a lungo endemica dopo le ondate di pandemia, con recrudescenze molto forti come quelle della prima metà del Seicento. In queste occasioni ha provocato danni demografici immensi, sebbene vi sia ancora dibattito sulla loro portata e sugli esiti.

LA LEBBRA, o «morbo di Hansen», dal nome dello scopritore del Mycobacterium leprae Gerhard Armauer Hansen, che lo isolò in Norvegia nel 1873, era molto diversa: si discute se l’Europa abbia conosciuto una vera epidemia di lebbra a partire dal XII secolo, per via dei traffici con il Vicino Oriente dov’era molto diffusa, per poi attenuarsi a partire dalla fine del medioevo; alcuni pensano che le fonti ne registrino semplicemente la presenza con maggiore assiduità, e comunque essa era certamente presente già nell’antichità e nell’alto medioevo: la guarigione dei lebbrosi è uno dei miracoli più praticati dai santi o dalle loro reliquie. In ogni caso, la lebbra era particolarmente temuta perché nelle sue forme più gravi rendeva il malato un reietto, una sorta di morto vivente che doveva rendere pubblica la propria condizione, magari annunciandosi con sonagli e campanelli, oppure doveva allontanarsi definitivamente dai sani e giacere nei lazzaretti.

CON L’IMMAGINE assai nota di san Francesco che abbraccia il lebbroso e si dedica alla sua cura conviveva l’idea che la lebbra fosse una punizione divina per i peccati, o che i lebbrosi fossero lussuriosi, uno stereotipo che si incontra spesso, dinanzi al quale ci si è chiesti se si possa mettere in relazione all’idea che la lebbra era la conseguenza di comportamenti sessuali illeciti: in particolar modo il sesso durante le mestruazioni. La cattiva fama che circondava i lebbrosi sarebbe giunta al culmine nel 1321 con l’accusa in Aquitania di aver avvelenato i pozzi in concorso con ebrei e musulmani: numerosi infermi furono messi a morte per questo. Insieme al disprezzo della società, però, nel basso medioevo crescevano anche gli sforzi per l’accoglienza, unica forma possibile di aiuto dal momento che la medicina non conosceva alcuna cura efficace contro il morbo.

NEL REGNO CROCIATO di Gerusalemme, dove il re Baldovino IV era morto di lebbra, nacque l’Ordine dei Cavalieri di San Lazzaro, un’organizzazione simile a quella dei più celebri Templari, ma che, intitolata al santo protettore dei lebbrosi, aveva la peculiarità di essere composta di individui affetti dal morbo. È un tema affascinante, indagato dalla storiografia, ma che lascia ancora molti margini alla ricerca. Si saluta per questo con piacere la riedizione di un lavoro di Giuseppina De Sandre Gasparini, Fra i lebbrosi, in una città medievale. Verona, secoli XII-XIII, a cura di Roberto Alloro, Marianna Cipriani, Maria Clara Rossi e con una premessa di Grado Giovanni Merlo (Viella, pp. 148, euro 20), che fa rivivere le vicende di alcuni malati, uomini e donne, nel periodo in cui la lebbra diviene una preoccupazione sociale. Le loro storie sono ricostruite minuziosamente e con grande sensibilità, in una prosa scorrevole e vivida; nelle pagine finali si dà loro la parola pubblicando stralci di alcune testimonianze dirette, che mostrano il tentativo di ricostruire una vita all’interno dei lebbrosari, insieme fra malati, ma con il concorso di «sani» che decidono di prestare la loro opera.

Le testimonianze, preziose perché rare, sono tratte dalle deposizioni rilasciate in una vertenza del 1235, sulla quale De Sandre Gasparini si sofferma a lungo, e mostrano l’emergere di una tensione secondo l’autrice nuova, caratteristica del Duecento, nella quale «a contemperare la visione del malsano legata alla forza del male e del peccato giunge l’immagine dell’uomo che può salvarsi proprio in forza della sua sofferenza senza fine, e insieme, per la persona sana, una nuova possibilità di “conversione” attraverso l’immedesimarsi con quella sofferenza».