Se siete costretti da cause di forza maggiore, attenzione a svuotare i bauli che stanno in soffitta o in cantina, potreste restare sommersi da un archivio di vite difficile da maneggiare. È quello che sta succedendo a una mia amica che ha venduto la grande casa di famiglia, una di quelle dimore tramandate di madre in figlia e così spaziose che tutte le generazioni e loro addentellati hanno, di anno in anno, depositato lì quello che non entrava negli appartamenti di città, avanzato da traslochi, tenuto perché ricordava un’infanzia, o semplicemente perché l’oggetto in questione era ancora in troppo buono stato o troppo bello per essere buttato via, o ancora perché qualcuno era morto e bisognava svuotargli la casa. In genere, la frase con la quale si conserva invece di scartare è la fatidica «Non si sa mai» che sottintende «Non si sa mai forse servirà a un nipote ancora non nato», «Non si sa mai forse torna di moda», «Non si sa mai verrà buono per la seconda casa se ne compriamo una», «Non si sa mai tessuti così non se ne producono più». In questo momento, la mia amica si sta occupando solo della sezione tessuti che significa teleria per la casa e non è una cosa da poco se si tiene conto che comprendono le memorie sue, di una madre, due zie, due figlie e una nonna.

SCESA in cantina, ha aperto i cinque bauli chiusi da anni e ne ha estratto: copriletti damascati, copriletti con frange, lenzuola di cotone finissimo con balze su balze, corredi con iniziali sconosciute al punto che si sta chiedendo di chi mai saranno state perché non corrispondono a nessun familiare noto, lenzuola con pizzi, lenzuola ricamate, tovaglie per tavolate da venti persone, set di salviette con pizzi, set di asciugamani di lino di con frange, centrini e tendine a crochet, tendoni con ruche, tutta roba che non sa dove mettere perché le figlie non ne vogliono sapere e lei non avrà spazio nella nuova casa. Per ora seleziona e divide in categorie da regalare, vendere o tenere e che metterà in un deposito in virtù del noto «Non si sa mai».

LA SEZIONE quaderni e pagelle di scuola, la prima tutina, le prime scarpine, il primo dentino caduto, le foto con il primo amore è già stata risolta dalle figlie che, dopo decenni che depositavano lì ogni ricordo, sono state costrette a decidere cosa buttare o tenere. Siamo tutti, o quasi, degli accumulatori seriali renitenti alla separazione da ciò che simboleggia il nostro vissuto. Io stessa, con i miei tre fratelli, siamo consapevoli di aver trasformato la soffitta della casa di campagna dove siamo cresciuti nel deposito di un nostro pezzo di vita dove convivono abiti di vari periodi anagrafici, mobili di diverse fasi abitative, servizi di piatti e bicchieri scampati a qualche trasloco, cose che vanno, vengono e tornano come un banco da falegname che uno di noi usò nel suo periodo da liutaio, una collezione di LP che nessuno può ospitare causa mancanza di giradischi, il vetro decorato di una porta regalato da non si sa più chi a non si sa più chi, una collezione di piccoli peluche che, sospetto, appartengono alla fase infantile di un fidanzamento infantile, uno schedario da ufficio smontato e mai rimontato da 30 anni. Vabbeh, poi c’è il carico da novanta aggiunto da nostra madre che è la regina del «Non si butta via niente», frase che aggiunta al «Non si sa mai» fa montare gli oggetti come la panna. Ogni tanto sogno il cabanon di Le Corbusier a Roquebrune-Cap-Martin dove c’è spazio solo per l’essenziale e penso che le nostre soffitte sono come una cattiva coscienza, troppa roba vecchia, polverosa e ingombrante. Aria.

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