Una misteriosa epidemia colpisce un paese del Nord Europa. Tempo alcune settimane e lo Stato collassa. Interrotte le comunicazioni con l’estero, chiuse le frontiere e gli aeroporti. Le poche notizie che filtrano all’esterno riguardano sommosse, movimenti di truppe e scontri a fuoco. Sono queste le informazioni che il commissario Jensen riceve da esponenti del governo riparati all’estero. Il poliziotto è appena uscito da una difficile operazione chirurgica. Ha lasciato il suo paese senza avere nessun segnale della «catastrofe» imminente. Le uniche turbative all’ordine pubblico erano gli arresti per alcolismo e il numero crescente di suicidi.

Il romanzo L’epidemia (Einaudi, Sile libero, traduzione di Renato Zatti, pp. 208, euro 13) è firmato da Per Wahlöö, considerato il capostipite del noir scandinavo. In Italia è stato pubblicato poco (la serie scritta con la moglie edita da Sellerio e Delitto al trentesimo piano da Einaudi), ma in patria è uno degli autori più noti di un genere che anche a quelle latitudini è usato come una corrosiva critica di una società che rimuove come fattore alieno come «deviazione» dalla normalità. Unica eccezione è se se la «deviazione» viene dai poteri forti economici: in questo caso viene nascosta allo sguardo pubblico.

In L’epidemia il governo vede le larghe intese tra un partito socialdemocratico ansioso di rimanere nelle stanze dei bottoni e un partito conservatore che fa fare il lavoro sporco contro i salariati agli antichi avversari. Il paese è infatti entrato nell’era della «Concordia». Tutto procede per il verso giusto. Le imprese fanno buoni affari e gli operai non protestano. Peccato per l’alcolismo e i suicidi. Inoltre, la partecipazione al voto scende elezione dopo elezione. Gli unici che protestano sono i gruppi di sinistra radicale, che ogni fine settimana marciano verso non il parlamento, ma le ambasciate dei paesi imperialisti. Quando Jensen ritorna nel suo paese rimette insieme i tasselli di un puzzle su una realtà molto diversa da quella che un integerrimo servitore dello stato poteva immaginare.

Il romanzo di Per Wahlöö è allusivo, ma neppure tanto. La sua è una critica alla società svedese: perfetta a prima vista, ma se lo sguardo si concentra sui dettagli ne esce fuori uno scenario di violenza, dove la lotta di classe dei ricchi contro i salariati non è mai venuta meno; e dove la meticolosa tassonomia di regole per il «buon vivere» esprimono una efficiente tecnologia del controllo sociale che rende inefficaci le pur preziose analisi di Gilles Deleuze e Michael Foucault sulla società del controllo. Più che la concordia, nella Svezia di Per Wahlöö la manipolazione dell’opinione pubblica e l’occultamento della realtà sono la norma. L’unica via di fuga è nelle bottiglie di pessimo alcol e nel suicidio. Oppure attuare strategie di mimetismo sociale: condurre cioè una vita irreprensibile, ma essere dissoluti tra le mura domestiche. Oppure cospirare per preparare una impossibile rivoluzione. Prospettiva guardata con disprezzo dalla maggioranza silenziosa. Ma per essere realistici occorre sempre volere l’impossibile.