La distruzione portata da due grandi tifoni, allagamenti dovuti a piogge torrenziali ed un terremoto nell’isola di Hokkaido che ha provocato frane e morti sono solo alcune delle tragedie che hanno caratterizzato il 2018 nell’arcipelago giapponese. Catastrofi naturali che vengono amplificate e rese più mortali dall’operato umano, come i cambiamenti climatici che influenzano oramai tutte le zone della terra, la cementificazione selvaggia che nel Sol Levante, almeno dagli anni sessanta, viene venduta come “normale”, e su tutto la sovrappopolazione. Ma le catastrofi che hanno colpito il Giappone negli ultimi cento anni sono anche quelle causate dall’attività umana e dal suo modello capitalistico, l’avvelenamento delle acque del mare vicino a Kumamoto con il mercurio da parte della Chisso Corporation dagli anni trenta o l’asma causata dagli impianti chimici nella zona di Yokkaichi nei primi anni sessanta, sono solo due degli esempi più drammatici. Simbolo di questa tragica convergenza fra catastrofi naturali e quelle causate dall’umano è naturalmente Fukushima, il disastro nucleare innescato dal maremoto e dal terremoto nel 2011 e quasi la summa di tutto quanto scritto fin ora.

Proprio al concetto di catastrofe e del suo intrecciarsi con l’arte è dedicata una grande mostra in corso al Mori Art Museum di Tokyo, esposizione che durerà fino al prossimo 20 gennaio. L’esposizione si intitola Catastrophe and the Power of Art e mette insieme le opere d’arte di una varietà di autori proveniente da tutto il globo, quasi a ricordarci come in ogni momento in qualche angolo della terra stia succedendo una tragedia o una guerra spesso non raccontata o di cui si viene a sapere solo a posteriori. Ogni artista usa e filtra il concetto di catastrofe secondo la sua sensibilità politica ed artistica, denunciando colpevoli, cercando di rialzarsi o facendo luce sui fatti, ma anche facilitando il processo di rielaborazione del lutto e fornendo coordinate per sopravvivere alla tragedia.

L’esposizione si apre con un’enorme installazione di Thomas Hirschhorn, Abschlag, un edificio in macerie che lascia intravedere le sue inetriora ed i suoi segreti, e continua con altre opere fra cui spiccano le fotografie realizzate da Ryuji Miyamoto dopo il grande terremoto che colpì la città di Kobe nel 1994. Si continua con Odyssey di Ai Weiwei, un’opera che copre l’intera parete di una delle sale del museo e che rappresenta la concretizzazione del progetto lanciato dall’attivista cinese nel 2015 per portare l’attenzione sull’immane tragedia dei rifugiati e dei profughi. Nessuno è illegale quando scappa dalla povertà o da pratiche politiche di violenza, spesse volte accompagnate da un’ideologia che invita alla pulizia etnica. Uno dei pezzi più ammirati della mostra è senza dubbio Foretoken dell’artista giapponese Manabu Ikeda, le onde composte da un proliferare di oggetti reali e fantastici che ci parlano direttamente del connubbio e mescolanza caotica fra umano e inumano. Realizzato prima del terremoto del 2011, questo dipinto si è successivamente legato, quasi inevitabilmente, con le immagini di distruzione e morte portate dallo tsunami che spazzò via interi villaggi nel nord del Giappone. Ma come ben sanno le popolazioni che più hanno subito danni e perdite a causa del maremoto, il mare con le sue onde è stato sì portatore di morte e dolore, ma allo stesso tempo è lo stesso mare da cui esse traggono sostentamento attraverso la pesca.

Meno conosciuta ma altrettanto importante è l’opera dell’artista ed attivista indonesiano Mohamad Ucup Yusuf che per molti dei suoi lavori, stampe su tela, si ispira ad un disatro ambientale cominciato nel 2006 vicino alla città di Sidoarjo, nella zona est di Giava. Un giorno verso le 5 di mattina del fango grigio tossico cominciò ad eruttare dal suolo e da quel lontano 2006 la fuoriuscita non si è praticamente mai interrotta, costringendo quasi 60 mila persone ad abbandonare le lore case per sempre. I quadri di Yusuf raccontano la lotta degli abitanti della zona contro coloro che sono i probabili responsabili di questa catastrofe, un’azienda, sostenuta dal governo, che perfora il suolo per ottenere gas.

Molto più personale è Medea di Swoon, una scultura realizzata con materiali misti che vede al centro le figure materne della sua famiglia, in particolare quella della madre, ora morta e che passò un’infanzia tribolata e segnata da violenze sessuali, con cui l’artista cerca di riappacificarsi. Conclude il percorso all’interno dell’esposizione Refugee Boat, un’opera partecipatoria di Yoko Ono, una stanza con una barca al suo interno con cui l’artista giapponese cerca di far entrare i visitatori all’interno del dramma dei migranti e dei rifugiati. Parte di un’idea lanciata dalla stessa giapponese già nel 1961, Add Colour Painting, quest’opera aperta invita i partecipanti a scrivere messaggi di pace sui muri, facendo sentire così ognuno parte di un’opera in continuo flusso, il nostro mondo.

Il Mori Art Museum occupa due piani, il 52 ed il 53, di un grattacielo nella zona di Roppongi, l’entrata del museo permette una visione a quasi 360 gradi dell’enorme sprawl urbano che è la capitale nipponica. Una città che in preparazione per le imminenti Olimpiadi del 2020 è in continua ricostruzione, il timore di molti è che l’evento sportivo si trasformi, una volta finita la sbornia e l’esaltazione per i giochi con l’enorme flusso di turisti e denaro che porterà, in una devastante catastrofe economica. Naturalmennte qualcuno si arrichirà e non poco nella metropoli, ma come spesso accade, saranno gli strati bassi della popolazione e soprattutto le zone esterne alla capitale a subire di più l’impatto dell’evento. Con un’economia già in ginocchio ed il problema della depopolazione sempre più montante, le zone già colpite dal terremoto e dallo tsunami nel 2011, specialmente le prefetture di Miyaji e Fukushima, non verranno per niente aiutate dalle Olimpiadi che anzi accentueranno la relazione vampirica e di sfruttamento energetico fra Tokyo e le zone ad esse circostanti, l’ennesima catastrofe?