Un terremoto è anche una grande questione politica. Ma non lo è nel senso che su una tragedia si possono ricamare meschine operazioni di marketing, con bande musicali al seguito, annunci di ricostruzioni miracolose e plastico avveniristico delle new town illustrato nella quarta camera, quella di Vespa. Si illude in maniera grossolana il governo se pensa di aver trovato ad Amatrice il suo Abruzzo. Cioè calcola di approfittare delle macerie per sviluppare un nuovo episodio di ingegneria della comunicazione, utile solo per la consacrazione del nuovo leader del fare che si spende in narrazioni in vista del referendum costituzionale.

Eppure, a tutta pagina, ieri l’Huffington Post titolava, con un’enfasi degna della stagione retorica del secolo scorso: «Presenza fisica e azione». E nell’articolo si poteva leggere: «Svegliato alle 3,45 Renzi fa il punto dell’emergenza. Si decide di non lasciare nulla al caso. Ma proprio nulla». E quindi «anche la comunicazione viene organizzata a puntino». A puntino.

Con la sua nuova tattica (proprio questo è il termine usato) il governo «cerca di non lasciarsi spiazzare dall’evento naturale» e quindi di «accelerare al massimo possibile». Il tentativo è quello di scandire artificialmente i tempi delle scelte, di simulare pragmatismo e efficienza: «La priorità è scavare, dice Renzi». Cose già viste.

Che la catastrofe diventi politica in tal modo, ovvero che una tragedia figuri come materia di tattica, di scenografia e di comunicazione studiata «a puntino», questo è l’indizio di una decadenza inarrestabile della sfera pubblica. È questione politica un terremoto ma in un senso diverso, perché, ad esempio, su un evento catastrofico si è scritta una delle pagine più importanti del pensiero moderno.

Nell’agosto del 1756 Rousseau scrive una lettera a Voltaire che aveva pubblicato un poema sul terremoto di Lisbona. Sebbene scosso dalle macerie, Voltaire, il cantore della grandezza del bel secolo delle arti e delle scienze, non perde le certezze del mondano che loda la perfezione del tempo e difende l’epoca «tanto denigrata dai mesti criticoni».

Rousseau lo incalza negando che la catastrofe rinvii alla metafisica, alla teologia, al fato. Sebbene ci siano eventi imprevedibili, considerate «le combinazioni del caso» che smonta la pretesa che «la natura dev’essere soggetta alle nostre leggi», Rousseau vede la politica proprio dove Voltaire scrutava solo la teodicea, con il rapporto tra Dio e il male, la bontà e la natura. Dalla teologia scende perciò sulla politica. Lo spiega bene Ernst Cassirer: «Rousseau ha sottratto il problema della teodicea al circolo metafisico, trasponendolo al centro dell’etica e della politica».

L’irrazionalista, il sentimentale Rousseau non se la prende con Dio (si distacca dalla pretesa dell’illuminismo di punzecchiare la religione in nome della ragione «quasi che dipendesse da noi credere o non credere in materie in cui la dimostrazione non ha ragion d’essere») o con la natura e mette sotto processo la società e così rilancia la ragione della politica come risposta critica alle emergenze.

Rileva ancora Cassirer: è la «coscienza della responsabilità della società, che Rousseau ha indicato per primo. Il XVII secolo ignorava questa idea». Rousseau inventa la politica moderna e scorge nelle macerie di Lisbona non già indizi di metafisica ma le tracce del crollo di una civiltà alienata e per questo mette sotto processo le scelte pubbliche nel progetto di città.

«Per restare al vostro tema, e cioè Lisbona, – scrive il ginevrino a Voltaire – dovete convenire che non era stata la natura a raccogliere là ventimila case dai sei ai sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti in modo più uniforme e in abitazioni più piccole, il disastro sarebbe stato molto minore, e forse non vi sarebbe stato. Tutti sarebbero fuggiti alla prima scossa. Invece, sono dovuti restare abbarbicarsi alle macerie esporsi a nuove scosse».

Non è in questione Dio o la natura che si presenta con «la durata ipotetica del caos». Contano scelte politiche nel contenere spiriti di lucro quando si edifica una città. Se nelle città umbre l’intervento sulle abitazioni dopo le precedenti emergenze ha consentito di prevenire disastri ciò significa che non è il semplice fato a portare in altri luoghi la morte, con scosse dalla intensità minore che abbattono alberghi e ospedali.
Se le risorse scarse vengono promesse per il ponte sullo stretto, dirottate sulle grandi opere, destinate a chi compie 18 anni o regalate per le gigantesche decontribuzioni a favore delle imprese, ciò accade per una scelta politica che non apprezza la messa in sicurezza del territorio come bene pubblico prioritario.

Il sostegno delle grandi potenze dell’economia e dei campioni della finanza è più ricercato della manutenzione dei territori, delle città affidata a lavori che mobilitano piccole imprese, artigianato, competenze diffuse. E questo ordine rovesciato dei valori è politica, cattiva politica che governa l’Italia come un paese periferico che frana dinanzi alle emergenze.