Gli elementi di ineffabilità e problematicità che caratterizzano «utopia» emergono con evidenza fin dall’analisi semantica del termine. Sospesa tra luogo felice (eutopia) e non-luogo (outopia), utopia è condannata in maniera consustanziale a esperire l’infausta condizione della crisi. Condizione che, in fondo, finisce col realizzarne entrambi i significati: momento di partenza è quello del «non-luogo» vissuto con un senso di incompletezza a cui porre necessariamente rimedio, seguito dall’immancabile convinzione di aver individuato il luogo felice a cui tendere per compensare quel vuoto originario e raggiungere l’armonia finale.

L’operazione non agevole compiuta da Luciano Canfora nel volume La crisi dell’utopia. Aristofane contro Platone» (Laterza, pp. 448, euro 18) consiste, con la consueta erudizione che lo connota, nel risalire alla fonte di quel sentimento razionale che chiamiamo utopia, attraverso la ricostruzione dell’episodio storico-filosofico in cui il commediografo Aristofane si è scagliato contro il nucleo essenziale del capolavoro di Platone: la Repubblica.

Espressione, il primo, della ragione beffarda che utilizza la finzione scenica per farsi beffe di quelle costruzioni sociali iper-razionali, che l’uomo ha sempre coltivato nel corso della sua vicenda, e che sono rappresentate dal secondo.

Canfora è maestro indiscusso della ricostruzione storica attraverso la certosina analisi filologica dei testi, ed è proprio con questa maestria che dimostra in maniera inconfutabile come Aristofane, con la sua commedia Ecclesiazuse, intendesse effettivamente scagliarsi contro il nucleo portante della grande opera di Platone e, con essa, di tutti quegli epigoni di Socrate che nel coltivare disegni utopistici avevano finito con l’elaborare modelli sociali inclini al totalitarismo, alla soppressione della libertà individuale, al disprezzo della democrazia e persino all’eugenetica.

In questa dialettica fra la ragione sognante del grande filosofo e la rappresentazione scenica beffarda dell’illustre commediografo, Canfora trova il sistema di delineare l’impianto concettuale dell’utopia platonica, istituendo un nesso con la tradizione socialista ispiratasi a Marx ed Engels.

Il problema è che tanto Platone, partendo dal concetto di virtù etica presente in Socrate, è pervenuto alla costruzione di un modello sociale (callipolis) tutt’altro che alieno da connotazioni liberticide e totalizzanti, tanto Marx ed Engels, partendo dal concetto di stato etico presente in Hegel, con la loro pretesa di socialismo scientifico hanno dato vita ad una tradizione politica incapace di concretizzare il progetto di emancipazione umana e di realizzazione di una società ispirata a criteri di giustizia.

L’unico ruolo storico effettivamente svolto dalla tradizione ispirantesi a Marx ed Engels, secondo Canfora, è stato quello della socialdemocrazia, ossia di pungolo costante e miglioramento graduale delle società liberali e capitalistiche. Mentre, per il resto, laddove ci si è spinti al tentativo di avvicinarsi maggiormente all’utopia della società di eguali realizzata, si è scivolati inevitabilmente in quelle forme di violenza totalitaria che già ai tempi di Platone erano degenerate nel tragico governo dei «trenta tiranni».

Lo storico non intende negare le grandi spinte rivoluzionarie ideate tanto da Platone (il primo a «parificare» la condizione della donna a quella dell’uomo, e per questo criticato dai padri della Chiesa), quanto da Marx ed Engels (affermazione della questione sociale, lotta per la democrazia, denuncia della sottomissione della donna), ma pur non simpatizzando per il beffardo Aristofane (espressione di una ragione borghese che ha gioco facile a ridurre in burla gli eccessi rivoluzionari), intende comunque farne propria la lezione per espungere dalla teoria dell’emancipazione umana quella malattia infantile che è l’estremismo.