Della serie quando il produttore vuole fare il cantautore. E ci riesce pure. Arca è una stella della musica attuale: gli vogliono tutti bene. Produttore per Kanye West, Bjork, FKA Twigs e Frank Ocean, è nato a Caracas nel 1990, da un banchiere e una donna dal carattere molto forte, è cresciuto in un collegio, ha iniziato suonando il pianoforte e poi è rimasto folgorato dall’utilizzo dei computer. Al suo terzo album nel giro di quattro anni, e questa volta dal titolo omonimo come a dire che rappresenta davvero il suo essere, Alejandro Ghersi ha completamente cambiato pelle.

Le sonorità inquietanti, poco armoniche, sempre catastrofiche sopravvivono anche in questo terzo disco, però rimangono il sostegno di una voce che per niente si conosceva. Una voce da efebo, un po’ Anthony, un po’ James Blake, un po’ molto altro. Canzoni frantumate in miriadi di note sintetiche, eppure rimangono intime anche se destabilizzano non poco.

Ricorda il miglior Dean Blunt, altro personaggio con cui ha collaborato. Chi lo conosce bene sa che in fondo sta tornando al suo passato. Icona gay, si presenta sul palco per i suoi dj set in abiti alquanto fetish, però aveva iniziato nelle vie di Caracas – e allora si faceva chiamare in giro Nuuro – con canzoni pop e basta. Già allora si mascherava, ai tempi non era un vezzo da artista ma un’esigenza: rifuggiva in quel modo il rischio di essere rapito, borghese ricco e potente. Ora canta in spagnolo, liturgie e nenie distorte, dove il synth emerge dalle ceneri di batterie elettroniche. Sorprende tanto. Manca forse un picco di bellezza, manca il singolone ma ci sta, il pop non fa per lui. Ricerca un’altra dimensione, sprofonda in canti onirici, inquietanti a tratti. Lui è un intellettuale anomalo del mondo della musica.

Refrattario ai premi, allergico alle definizioni, agli incastri forzati, pittore da adolescente, poi regista della musica altrui, teorico dell’innovazione dei linguaggi sonori, ha raccontato che potrebbe separarsi da tutti ma non dall’artista visionario Jesse Kanda, autore ancora una volta del bel artwork del disco. I due si sono conosciuti durante notti trascorse davanti a un laptop, quando erano solo degli adolescenti, e dopo diversi anni si sono conosciuti. E il visual artist giapponese è diventato il regista dei suoi stranianti video, insieme hanno fatto tour in giro per il mondo. E ha disegnato, tra l’orribile e il bello, le copertine dei lavori di Arca. Metafisico come David Lynch, c’è una rivisitazione moderna degli incubi di Bosch nelle sue opere. Proprio come questo disco omonimo di Arca, che gli ha permesso di far pace con se stesso, allontanando i fantasmi dell’adolescenza turbolenta e della maturità contagiata da un successo debilitante.