Può piacere o meno, ma lo slogan della lista che secondo le previsioni vincerà le elezioni di oggi, “Junts pel Sí” (Assieme per il sì) è quello che meglio riassume il senso della giornata elettorale: «Il voto della tua vita». Una grande maggioranza dei catalani vive le elezioni di oggi, formalmente solo un voto per eleggere il Parlament catalano, come la prima occasione in cui ci si potrà esprimere a favore o meno di una Catalogna indipendente.

Cinque anni di giravolte

In cinque anni, il presidente in carica, Artur Mas, del partito di centrodestra “Convergència Democràtica de Catalunya” (Cdc), ha traghettato il suo partito da una posizione nazionalista “moderata” e tendenzialmente patteggiatrice verso una dichiarata intenzione di secessione. A scatenare il processo che ha portato le posizioni indipendentiste, tradizionalmente non più di un terzo dei catalani, a (probabilmente – e si saprà proprio oggi) avvicinarsi al 50%, una serie di fattori, tutti legati alla presa di potere del Partito popolare più ottuso e stantio.

Dapprima con il ricorso vendicativo contro lo Statuto catalano, approvato nel 2006 dopo anni di faticosi compromessi dal Parlament catalano, dalle Cortes spagnole e infine da un referendum: la tardiva risposta del Tribunale costituzionale (arrivata solo nel 2010), che cancellava alcuni dei suoi aspetti più simbolici, venne vista come la fine del tentativo di una “terza via”, il patto con lo stato spagnolo.

Mentre a Madrid prendeva il potere il passivo Mariano Rajoy, a Barcellona diventa president Artur Mas che governa in minoranza, all’inizio con l’appoggio proprio del Partito popolare, con il quale rompe davanti alle prime manifestazioni massicce in favore dell’indipendenza il giorno della festa catalana (11 settembre) a partire dal 2012. Mas capì che poteva cavalcare il malcontento, e mascherare i suoi tagli con il comodo alibi di «Madrid ci ruba». Alleato con gli indipendentisti di “Esquerra Republicana de Catalunya” (Erc), il suo piano diventa quello di recuperare una richiesta storica dell’indipendentismo, il «diritto a decidere»: il diritto all’autodeterminazione del popolo catalano.

Davanti al muro invalicabile proposto dal Pp (in questo pienamente in sintonia con il Psoe), che ha impedito a tutti i costi la celebrazione del referendum, ed è stato incapace di fare alcuna proposta alternativa, la rabbia dei catalani non ha fatto che crescere ogni anno. Il grande merito storico di Artur Mas è stato quello non solo di riuscire comunque a celebrare un referendum il 9 novembre scorso – anche se il governo di Madrid lo ha ostacolato in tutti i modi privandolo di qualsiasi significato legale – ma di essere riuscito a trasformare, con l’aiuto di Erc e del movimento indipendentista di sinistra della Cup, il discorso indipendentista nel discorso egemonico. Rischiosissimo oggi non collocarsi sull’asse pro-contro indipendenza.

Ciliegina sulla torta, convocare per la seconda volta consecutiva elezioni anticipate, stavolta “plebiscitarie”: un sostituto legale del referendum (a cui comunque parteciparono più di 2 milioni di persone, sui cinque e mezzo di aventi diritto). Paradossalmente, anche i partiti schierati fermamente sul no all’indipendenza, come il Pp o Ciutadanos – i conservatori dal volto giovane e dinamico – finiranno per fare questa lettura dei risultati.

Gli schieramenti del No e del Sì

Il panorama politico vede come favorita “Junts pel Sí”, il listone che Mas abilmente è riuscito a mettere insieme con pezzi del suo partito (altrimenti destinato a sicura sconfitta rimasto orfano del compagno dall’inizio della democrazia, i democristiani di Unió, con 15 sedi sotto embargo giudiziario per i molti casi di corruzione, e con il padre storico del partito e mentore di Mas, Jordi Pujol, costretto a chiedere scusa pubblicamente per i conti in Andorra suoi e della sua famiglia), Erc e organizzazioni indipendentiste. Il tocco da maestro è stato quello di mettere come capolista un ex eurodeputato rossoverde e di nascondersi al numero 4 (le liste sono bloccate).

In questo modo, benché sia il vero candidato presidente, non ha dovuto affrontare nessuno scomodo dibattito elettorale. Sul lato indipendentista anche la Cup, che vive l’ambiguità di appoggiare il processo di rottura, ma di pretendere al contempo la creazione di uno stato fortemente sociale, senza paura di uscire da Unione europea o dall’euro (lo spauracchio delle campagne del terrore che tanto spaventa la lista di Mas). Sul fronte del No, oltre ai popolari guidati dall’ex sindaco xenofobo di Badalona (sconfitto a maggio nelle amministrative), troviamo “Ciutadans”, partito catalano proiettato sul piano nazionale, che schiera l’unica donna candidata presidente. Alcuni sondaggi li danno come secondo partito.

Per il secondo posto combatte anche l’unica lista che pur proclamandosi a favore del diritto a decidere, non si schiera né pro né contro l’indipendenza: la lista unitaria “Catalunya sí es pot” (Catalogna, sì, si può), che unisce i rossoverdi catalani di Icv, Izquierda Unida e Podemos.
I socialisti catalani, un tempo molto forti, scontano l’obbedienza ai diktat di Madrid e la conseguente vaghezza sia sul tema autonomista (parlano di una riforma costituzionale federalista cui ormai credono in pochi), sia sui temi sociali. L’unico guizzo del partito gliel’ha regalato il candidato Miquel Iceta che, pare in maniera del tutto estemporanea, si mise a ballare scatenato i Queen sotto gli occhi allibiti del segretario generale Pedro Sánchez: ormai un classico di questa campagna. Infine rimane la piccola Unió, che ha lasciato il partito di Mas e che spera di raschiare uno o due seggi sposando le tesi tradizionali della destra catalana: nazionaliste ma in cerca di patti.

Campagna elettorale surreale

La campagna elettorale ha raggiunto vette di surrealismo inedite. Dall’infantile guerra di bandiere dai balconi del comune di Barcellona, giovedì, durante la festa patronale della città, all’inedita minaccia delle banche di lasciare il paese nel caso della creazione di una repubblica catalana (pare siano molti i clienti che hanno chiuso i conti per protesta), alle parole deliranti dell’ex premier Felipe González, che ha paragonato l’autodeterminazione catalana ai trasferimenti coatti di Stalin, giù giù fino alle minacce di corralito della Banca di Spagna o di rimanere fuori dalla Liga per le squadre catalane. Il Pp ha persino trascinato Sarkozy a chiudere la campagna strillando contro l’indipendenza, dopo un patetico spot in cui i leader nazionali, in un traballante catalano, venerdì chiedevano il voto «per l’unità».

Dall’altra parte, “Junts pel Sí” ha basato una campagna priva di previsioni economiche solide per un nuovo stato su uno spot patinato, in cui si dipinge un futuro idillico, alternato con l’emissione integra di una patetica intervista di Rajoy che dimostrava di non conoscere neppure la costituzione spagnola (che impedisce di privare chiunque della cittadinanza e quindi ipso facto dello status di cittadini europei). Tra minacce e superficialità, oggi si vota. E domani, smaltita la sbornia, si torna a fare politica seria. Forse.