La sequenza di infortuni mortali per poco al di sopra della media degli anni ante Covid rimanda, oltre il coro dei coccodrilli, a interrogativi profondi sul perché di questi eventi e come evitarli. Discutendo recentemente sul tema mi sono reso conto di una deformazione professionale dovuta al fatto che le indagini sugli infortuni sono uno dei prodotti quotidiani della mia attività come tecnico della prevenzione in una ASL/ATS. Abitudine, assuefazione e frustrazione portano sempre meno a ragionare estesamente, oltre la singola indagine post evento. Sintetizzando: quasi tutti gli infortuni (non sono incidenti!) hanno un comune determinante costituito dalla violazione di una o più norme da parte di uno o più soggetti, lavoratori inclusi in qualche caso; secondo gli imprenditori la colpa è sempre o quasi della disattenzione dell’operatore.

Eppure, le norme le abbiamo e sono adeguate, anche se migliorabili e seppure da anni sottoposte ad azioni concentriche per ridurne l’efficacia: obiettivo riuscito svuotando il laghetto ove nuotano i sempre meno numerosi tecnici della prevenzione pubblici. Per reazione a questa conclusione apparentemente riduzionista, vanno richiamate le basi della prevenzione: “la prevenzione si fa con l’impiantistica”, “la conoscenza è già prevenzione”, “ogni infortunio è prevedibile, quindi prevenibile”; e la sempre attuale necessità dell’azione diretta dei soggetti lavoratori e lavoratrici e di un regolare rapporto con i tecnici e gli enti pubblici, come stabilito alla nascita (anzi in embrione) del servizio sanitario nazionale. Si può esaminare la questione anche da un altro punto di vista, anzi due.

La “casalinga di Voghera” (il genere è casuale) come affronta il tema della sicurezza altrui quando anche una volta sola e per un breve periodo assume una funzione vicina a quella del datore di lavoro: il committente – per esempio – della ristrutturazione dell’abitazione di proprietà? Davanti a due offerte alternative, una comprensiva di tutti gli oneri della sicurezza (contributivi, contrattuali e di sicurezza) e l’altra con un massimo ribasso palesemente fondato sul taglio di ogni costo accessorio, quale sceglierà? Perché non la seconda, risparmiare un bell’importo contando su un rischio calcolato, ragionato, accettabile? Vuoi che proprio da lei/lui si verifichi un infortunio grave (quello lieve è incluso nel prezzo), di quelli che ogni tanto raccontano i media e che lo/la impressionano per cinque minuti? Vuoi che si verifichi un evento così improbabile come vincere la lotteria degli scontrini, che comunque persegue giornalmente? E poi, se proprio capita, io sono solo il/la committente, la colpa sarà dell’impresa. A parte l’ultima imprecisione – le norme individuano i casi in cui il committente può essere chiamato a rispondere di non conformità per opere realizzate per suo conto – quello che è opinione comune è la tendenza a considerare le leggi, a partire da quelle fiscali, e la sicurezza un affare altrui. Ognuno si considera un “essere speciale” che può, anche quando non gli spetta, utilizzare questa o quella deroga. Questo imprinting è applicato anche nella sicurezza sul lavoro contando su un’agenzia delle entrate quasi inesistente e sugli oramai mitici servizi di prevenzione pubblici la cui efficienza ed efficacia si perde nei racconti degli anziani.

Passiamo al secondo “tipo psicologico”: il manovratore della funivia del Mottarone. È un lavoratore preparato, cosciente, al quale i suoi dirigenti indirettamente chiedono di aggirare le condizioni di sicurezza elementari tenendo i forchettoni inseriti anche al di fuori della manutenzione. Come vede la sicurezza, propria e altrui? Anche lui come una questione che non gli appartiene, delegata, e si considera mero esecutore come per tutto il resto: orari, organizzazione del lavoro, etc.

È l’espressione della solitudine e della progressiva distruzione dei diritti e della dignità dei lavoratori; l’operatore si ritiene (lo è) ricattabile e non vede strumenti per opporsi, non certo affidarsi all’ente pubblico che è, aspetto non secondario, anche il proprietario della struttura. Se qualcosa succederà sarà una sfortuna: vuoi che si rompa la fune traente? O al più una carenza degli organi di controllo che non controllano o si fanno turlupinare dall’impresa. Oggi teme che questa silente accettazione del sistema non lo esima da una chiamata in correità dall’occhio poliziesco del pubblico ministero di turno. Si sente (lo è) doppiamente preso in mezzo suo malgrado; nel corso sulla sicurezza fatto dal consulente del padrone nessuno gli ha detto che l’art. 44 del D.Lgs. 81/2008 gli dà diritto di rifiutarsi di lavorare, senza conseguenze, di fronte a rischi gravi ed evidenti. Tra i primi atti compiuti a Taranto i Riva avevano messo in piedi un reparto confino per i lavoratori con la schiena diritta: isolare quelli combattivi, dare un esempio e avere maggior agio a scegliere e controllare le risorse umane. Eppure: “Il servizio sanitario nazionale nell’ambito delle sue competenze persegue (…) b) la sicurezza del lavoro, con la partecipazione dei lavoratori e delle loro organizzazioni, per prevenire ed eliminare condizioni pregiudizievoli alla salute e per garantire nelle fabbriche e negli altri luoghi di lavoro gli strumenti ed i servizi necessari” (art. 2 Legge 833/1978). Che necessiti un ritorno al futuro?

L’autore è Presidente Medicina Democratica – Tecnico della Prevenzione