Voglio iniziare questa riflessione partendo dalla mia scrivania. Io lavoro, mio figlio segue le sue lezioni a distanza. La nostra casa è piccola ma ci consente di avere uno spazio dove organizzare le giornate, ognuno con il suo pc. Il computer che avevamo in più lo abbiamo messo a disposizione di chi non lo possedeva. Come tutti, vivo questi giorni di quarantena a casa. Un contenitore per me di cura, di affetti, di sicurezza. Un contenitore adesso anche di lavoro, di scuola. Non più il luogo in cui tornare, ma quello in cui restare.

Parto dalla casa perché  si è trasformata nell’unico luogo che declina tutti gli aspetti della vita. Lavoro retribuito, quando c’è, e lavoro sommerso, una costante nella vita di tutte le donne, lavoro cui si somma una convivenza che non è più una scelta, ma un obbligo, e che non per tutti ha la stessa valenza e gli stessi esiti.

Per una famiglia vivere la quarantena in una casa di 30 metri quadrati, media a disposizione ad esempio in alcune zone periferiche di Roma, è molto diverso che viverla in appartamenti di 100 mq, come accade nel centro o ai Parioli. Così come è molto diverso se si ha un lavoro, se ci si può sostentare, se si ha la connessione internet, se si hanno gli strumenti per lavorare e studiare.

Roma, il mio osservatorio, è una città fortemente diseguale. Diseguale in termini di opportunità, di divari che si sommano gli uni agli altri, tra centro e periferia, in termini di salute, di reddito, di istruzione, di possibilità lavorative, di parità di genere e di disparità di retribuzione tra i generi. Il cambiamento epocale che ha investito le nostre vite, a seguito della pandemia, con il vincolo a restare a casa, ha avuto un impatto enorme sulle donne.

Abbiamo parlato per anni di conciliazione, di smart working, di condivisione dei ruoli. In modo prepotente, da un giorno all’altro, abbiamo avuto a livello mondiale la necessità di applicare frettolose modalità e principi finora solo teorizzati. Tutti a casa, tutti al lavoro da casa. E sono venuti alla luce i nodi irrisolti di un mondo sommerso che pesa ancora troppo esclusivamente sulle spalle delle donne.

Trascorrere il tempo del lavoro, il tempo della cura, il tempo del privato nello stesso luogo, senza la possibilità di staccare, è per le donne un boomerang che le colpisce sul fianco più scoperto. Quello che resta è un carico enorme, quel lavoro sommerso, di cura emotiva di figli e anziani e lavoro domestico, che tutte le donne svolgono e che non è riconosciuto né condiviso in alcun modo in molte famiglie. Il carico fisico e mentale che ne deriva è oggi ancora più intenso: fronteggiare le preoccupazioni, le angosce, la solitudine, arginare come una diga le tensioni e contenere l’ansia di una situazione inedita, per cui il nostro mondo non ha paragoni, è un lavoro immane che pesa sulle spalle delle donne, che non sempre lavorano stabilmente.

Leggiamo di tante proposte per la “Fase Due”, che da maggio dovrebbe gradualmente riportarci a una nuova normalità. La riapertura delle scuole pare ancora incerta e lontana, ma si parla già di una ripartenza economica e di una riapertura delle attività, senza considerare però come faranno le famiglie a gestire lavoro e tempo dei figli, ancora a casa.

All’incertezza economica e alle prospettive lavorative si somma un altro aspetto, anche questo legato al nostro contenitore, la casa. Perché le mura domestiche non sono per tutte luogo sicuro. Per le donne che all’interno della casa vivono relazioni violente, chiedere aiuto ai centri antiviolenza in questi giorni è ancora più difficile, proprio perché non hanno quella libertà di movimento che è anche spazio di pensiero, di autodeterminazione, di consapevolezza, in una parola di  autonomia.

Leggo di ennesime taskforce tutte al maschile che dovrebbero risolvere i problemi del mondo post pandemia. Manca una parte: manchiamo noi donne, le nostre intelligenze e le nostre esperienze, per uno sguardo collettivo sul mondo. Abbiamo l’occasione di ripensare la nostra città e il nostro Paese, partendo da alcuni punti essenziali: lo sviluppo sostenibile, le pari opportunità, la salute pubblica, l’innovazione tecnologica e l’abbattimento del digital divide. Ma dobbiamo farlo in modo collettivo, non lasciando ancora una volta una metà del cielo a terra. Vogliamo il pane e vogliamo anche le rose.

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(l’autrice dell’articolo è Presidente del Municipio I – Roma)