Il potere evocativo e consolatorio degli oggetti è la ragnatela leggera che si estende su un possibile percorso (alternativo) dentro la città di Istanbul: quello che va dal Museo dell’innocenza di Orhan Pamuk, in Cukurcuma Caddesi, alla retrospettiva dell’artista turca Gülsün Karamustafa che si tiene al Salt Beyoglu e continua, con un solo video, al Salt Galata (l’imperdibile esposizione è in corso fino al 5 gennaio). L’incontro fortuito tra queste due «finzioni della memoria» produce infatti interessanti scintille, rivivificando un atlante sentimentale che altrimenti rischierebbe di risultare algido ed esangue. Mentre Kemal (il personaggio del libro di Pamuk) colleziona ossessivamente piccole cianfrusaglie toccate, sfiorate, annusate dalla sua amata Füsün al fine di costituire quel reliquario laico e feticistico dedicato all’amore perduto che è il suo museo (aperto nel 2012 nello stesso palazzo dove abitava la donna inafferabile), Gülsün compie il medesimo gesto di appropriazione attraverso le fotografie e ricostruisce storie, narrazioni, biografie, rispondendo a uno struggente bisogno, simile a quello dello scrittore e del suo protagonista: fermare il tempo in una istantanea, arrestare il flusso delle emozioni e far sì che l’impalpabilità di un momento non abbia la consistenza delle nuvole. In entrambi i casi, foto e oggetti non hanno alcun valore in sé, ma sono tracce, rimandi, risonanze. Tanto che l’artista di Ankara si potrebbe dichiarare fedele al principio di Pamuk secondo cui «le storie di vita quotidiana e quelle ordinarie degli individui sono più ricche, più umane e molto più gioiose rispetto alle storie delle grandi culture… il futuro dei musei è dentro le nostre case».

Così, la Wunderkammer dell’innocenza non è altro che un palazzo-scrigno del ricordo (come vedremo, è il gemello ideale dell’edificio Vaslamatzis che l’artista riproduce in una scultura dettagliata e in scala) dove realtà e finzione si intrecciano. Vi si narra la malinconica fiaba di un amore che non si è avuto e allo stesso tempo – attraverso le piccole cose esposte, anche di crepuscolare cattivo gusto – ricostruisce, in maniera tassodermica, la quotidianità verissima di una Istanbul che non c’è più. Bisogna però sapere che i ricordi, a volte, rivendicano brani di vita immaginata come vissuta, ma mai davvero esistita.

Pure Gülsün Karamustafa (classe 1946) si affanna nel richiamare in vita i fantasmi: lo fa attraverso le sue opere pittoriche che evocano il kitsch e le superstizioni popolari e lo fa quando ordina e archivia i fatti della vita, recuperando le tramature sfilacciate di storie dimenticate. Come quella di piazza Taksim, oggi tornata alla ribalta per gli scontri con la polizia degli attivisti della Gezi Resistance e il cui passato è costellato di conflitti e massacri. Da qui partì nel settembre del 1955 il pogrom contro le minoranze greche che vivevano a Istanbul. E qui si ripresenta Karamustafa per risvegliare la memoria come prologo necessario per raccontare le peripezie dei Vaslamatzis. Si viene introdotti così dentro le pagine di quell’album collettivo e privato da un modello architettonico di un signorile edificio a più piani: apparteneva a una delle famiglie più ricche della minoranza greca di Istanbul, dove si erano trasferiti nel primo decennio del secolo scorso. I Vaslamatzis, abili imprenditori, aprirono le prime fabbriche di soda. Con il nome Olimpos, la loro gazzosa divenne la bevanda più celebre degli anni Quaranta e Cinquanta. Ma dopo le violenze scoppiate nel 1955, i Vaslamatzis dovettero fuggire dalla Turchia, destinazione Atene. E il palazzo venne abbandonato al suo destino. Fra i nuovi residenti, però, è capitata proprio Gülsün che ha voluto far riaffiorare quella storia traumatica: «Volevo riconsegnare un immobile ai suoi veri proprietari, privi di qualsiasi ricordo, almeno in forma di opera d’arte – spiega l’artista – Sono cresciuta in una città con una popolazione in gran numero appartenente alle minoranze (greci, armeni, ebrei), che via via ho visto diminuire. Circa ogni dieci anni c’è stato un qualche motivo che li ha costretti a lasciare il loro paese, i ricordi e le proprietà….».

Karamustafa sa come abbattere i labili confini fra cronaca intima e collettiva. «Mi piace molto usare foto personali nelle mie opere. Naturalmente, faccio una seria selezione prima di decidere e, a cominciare dal mio album di famiglia, cerco di includere quelle immagini che possono risuonare in una sfera pubblica». Come lo scatto che ritrae lei bambina affacciata al finestrino del treno, nell’atto della separazione dal padre, rimasto sulla banchina. Un distacco che simboleggia i tanti esili e le migrazioni del suo popolo. Oppure, la restituzione della Storia può condurre verso inediti momenti di meraviglia e stupore, come quell’inverno del 1954 quando il Bosforo si ghiacciò. «Ero una bambina, ho un ricordo misto a paura, come avviene nelle fiabe. Anni dopo, ho sentito il bisogno di ritrovare questa memoria, che ha significato una splendida avventura…».