Il titolo ha qualcosa di esotico, ma con un po’ di attenzione, si capisce che affonda le radici in un mondo molto concreto e che nutre l’immaginario attraverso una serie di lacerti. Parla dell’Aquila, infatti, solo che lo fa al contrario e giocando con le assonanze. Aliqual, il libro fotografico nato su progetto di Massimo Mastrorillo e curato da Door per la casa editrice Skinnerboox, chiama in campo la città partendo dal suo «sottosopra», dal dentro invece che dal fuori, raccogliendo minuziosamente gli indizi forniti da una «zona d’ombra».

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Così, senza una cornice di salvezza, questo fotografo che caparbiamente indaga fra le pieghe dei conflitti e fruga nelle ferite, non per voyeurismo ma per onestà dello sguardo, ha scelto di seguire L’Aquila giorno dopo giorno, a partire dal terremoto di sei anni fa, che la congelò nella catastrofe. E di «catalogare» – con la lucidità di chi persegue un obiettivo che coinvolge una geografia sentimentale lasciando a nervi scoperti la crudezza della realtà – i vari interni squarciati delle case, scuole, uffici. Racconta Mastrorillo che il ricordo più persistente è olfattivo: i luoghi hanno un odore che resta addosso.

Siamo nel centro storico abruzzese, lì dove tutto si è fermato nonostante i numerosi cantieri al lavoro, dove il silenzio e la polvere del tempo vincono sul vociare dei bambini e sulla frenesia delle attività quotidiane. Nelle foto di Massimo Mastrorillo affiorano frammenti di vita vissuta e sospesa in quella notte quando alle ore 3.32 si scatenò l’inferno. Un inferno gestito col malaffare e rimasto intatto in tutti i suoi «gironi», ancora oggi, a distanza di sette lunghissimi anni. I suoi scatti, uno dopo l’altro, registrano allora un’esistenza collettiva interrotta, mescolano storie private e riconsegnano l’off limits che vieta il passaggio – e anche la presa di coscienza di una situazione assurda – alla cittadinanza.

È un libro drammatico quello di Mastrorillo, ma necessario (e forse scomodo) perché lotta apertamente contro l’«oblio forzato», recuperando memorie (che nella normalità sarebbero insignificanti) e trame, là dove erano rimaste, in bilico sulle mura sventrate di un salotto, una lavagna della scuola (con le formule algebriche impresse dal gessetto bianco), fra le sale di un museo dove alla rinfusa si rintracciano reperti, in mezzo ai calcinacci che dominano il paesaggio aquilano, spingendo verso un vedutismo della rovina. «Ho deciso di entrare nelle case abbandonate, vandalizzate, pericolanti, ma ormai aperte a chiunque, piene di ricordi che non si vogliono più ricordare, e di fotografare con una macchina e un flash, con unamaggiore immeditezza e senza badare troppo alla forma».

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Il risultato di questa operazione istintiva è stato, in fondo, un rovesciamento: la sua possibilità di visione, al posto di altri cui era interdetta quella stessa «inquadratura intima», ha trasformato il fotografo in un testimone d’eccezione. È lui l’unico a poter registrare e reinviare alle generazioni future quella cartografia di legami famigliari, professionali e affettivi negati dalla censura ufficiale che strega la città, soffocandola nella zona rossa. È per questo che Mastrorillo parla di un’«assenza di visione», che in particolare colpisce i più giovani. I Progetti Case hanno costretto a spostare lo sguardo, a crescere «lontani».
Il libro di Massimo Mastrorillo (con testi in italiano e inglese) ha alle spalle una operazione di crowdfunding durata 42 giorni, è stato anche in mostra a Milano e su video, al sito https://vimeo.com/136735579, si può vedere un intervento che riguarda l’intero progetto.