All’inizio era il cavallo di Muybridge, sfida impalpabile del movimento, nel tempo gli animali sono diventati icone dell’immaginario, compagni di avventure e di esistenza. Come dimenticare l’amabile canetto della coppia di The Thin Man (L’uomo ombra, 1934, di W.S. Van Dyke)? O lo scheletro del dinosauro di Susanna (Bringing up Baby di Hawks)? Fino alle creature disneyane sul confine dell’umano come lo sperduto Bambi?
E ancora gli animali incarnazione di una natura spaventosamente nemica come gli Uccelli di Hitchcock,o metafora di una condizone universale dell’essere vivente come l’asino bressoniano di Au Hasard Balthazar, mutazione ibrida di animale e l’umano, donne ragno, corpi posseduti dal desiderio di un altrove, paradosso di una wildness condannata da sé stessa – Grizzly Man di Herzog.

Animals è la retrospettiva della prossima Viennale, il festival diretto con spavalda passione da Hans Hurch, non competitivo ma pieno di divertimento e di detour sorprendenti negli immaginari. La scelta – come suggerisce il sottotitolo «Una breve zoologia del cinema» – è ovviamente parzialissima anche perché parlare dell’«animale» nel cinema è come scriverne la storia. L’idea dell’animale potenziale luogo di un’alterità (iconografica fino alla sfida fisica, il corpo a corpo tra digitale e pesci di Leviathan) è tornata da qualche tempo con nuova prepotenza a «disturbare» i bordi dei fotogrammi, rappresentazione di disastri interiori, apocalissi sociali, di un’implosione che produce inevitabili slittamenti nel caos. O di un tempo, e della sua essenza, di un «limite» della materia (peccato che nella selezione, almeno quella pubblicata sul sito non vi siano Le quattro volte di Frammartino o i film di Apichatpong Weerasethakul).                                                                                                                                   

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Il trailer del festival che si apre il 22 ottobre (fino al 5 novembre) è firmato da Tsai Ming-liang, «un haiku» silenzioso e in bianco nero in cui vediamo il suo attore Lee Kang-sheng muoversi in una foresta di bambù. C’ è in fondo qualcosa di «animale» anche nelle immagini del cineasta taiwanese, una sorta di giungla che vibra sotterranea di una violenza contrapposta a quella «controllata» nell’umano, lo squarcio nell’immagine di uno spazio segreto, di un mondo reinventato sia esso nella sala buia di un vecchio cinema porno che nell’acqua che non si arresta mai (Goodbye Dragon Inn, Il gusto dell’anguria).
Lee Kang-sheng è anche il protagonista di Afternoon, il nuovo film di Tsai Ming-liang – lo abbiamo visto alla scorsa Mostra di Venezia tra gli eventi speciali. A presentarlo c’era lui, Tsai Ming-liang, delicato e sobrio come sempre, che tanti anni fa (era il ’94) proprio al Lido ha cominciato il suo cammino nel mondo di nuovo talento lanciato da Vive l’amour che vinse il Leone d’oro destabilizzando i tempi narrativi del sentimento.

Afternoon è un lungo pomeriggio, due uomini seduti nella stanza di una casa che le loro parole ci raccontano bella, il rifugio che desideravano, e le immagini ci mostrano invece un rudere, le finestre aperte sul verde di una giungla. Ma le apparizioni in campo di microfoni, e il regista che si rivolge alla macchina da presa rivelano la messinscena: tutto è costruito, dunque tutto è verissimo.
L’altro uomo, più silenzioso è appunto Lee Kang-sheng, il corpo del suo cinema, un viso da ragazzino imbronciato senza paura di niente, neanche dei personaggi che interrogano ruoli sociali e tradizioni radicalmente come nel rapporto padre/figlio in The River.
È l’uomo dice il regista per il quale ha continuato a fare film. Lui parla, l’altro ascolta, fuma, ogni tanto aggiunge qualcosa, a volte divertito. Tsai Ming-liang ricorda la malattia, il sentimento incombente di morte, la paura che chi ama vada via prima di lui. Gli occhi si riempione di lacrime, sorride: «Diranno che sto recitando».                                                                                   

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Il tempo passa perché è soprattutto un film sul tempo The Afternoon, il tempo di una conversazione che occupa una vita intera. E il tempo di un cinema che a questa esistenza è intimamente legato attraverso il suo attore, un amico, un fratello, qualcuno di famiglia. La loro è una relazione impossibile da descrivere.
Ci sono i film, e i ricordi, i lutti e le gioie, le città e gli hotel.
Ti è costato fare tutto questo chiede Tsai? La sessualità, lui omosessuale, ti ha imbarazzato? L’altro dice di no, scherza sulle telefonate continue dall’estero anche per non dire nulla: «Stai sempre al telefono».
Le ore colano, e così le memorie, la geografia intima di immagini che vivono in quelle due figure l’ sedute. Nel loro mettersi in gioco dentro ogni storia, nei mondi liberati, nei fantasmi che si accavallano dentro a quel sogno.