Nel suo libro “Quando la casa brucia” (Giometti Antonello, 2020), Giorgio Agamben scrive: “Quale casa sta bruciando? Il paese dove vivi o l’Europa o il mondo intero? Forse le case, le città sono già bruciate, non sappiamo da quanto tempo, in un unico immenso rogo, che abbiamo finto di non vedere. Di alcune restano solo dei pezzi di muro, una parete affrescata, un lembo del tetto, dei nomi, moltissimi nomi, già morsi da fuoco. E, tuttavia, gli ricopriamo così accuratamente con intonachi bianchi e parole mendaci, che sembrano intatti. Viviamo in case, in città arse da cima a fondo come se stessero ancora in piedi, la gente finge di abitarci ed esce per strada mascherata fra le rovine quasi fossero ancora i familiari rioni di un tempo.”

Ciò che descrive Agamben con poetica lucidità, è la perdita della realtà a causa dell’eclissi della capacità di riconoscere e elaborare le perdite a partire dai nostri sogni. Il sogno è mosso da ciò che non c’è più, ma, mancando, ci obbliga a metterci di nuovo in gioco, sotto la spinta del desiderio di ritrovarlo in altre modalità, in altre forme, in altre implicazioni e possibilità. Sognare toglie l’oggetto perduto dalla sua deperibilità, lo colloca nello spazio della potenzialità e lo rimette nel movimento trasformativo della vita.

Il sogno non restaura, non restituisce ciò che è a ciò che era, o si desiderava che fosse, prima; riattiva la voglia di vivere che tutto rinnova e tutto ripara. Quando lo spazio onirico cade in rovina -inascoltato presagio, e insieme testimonianza, di una realtà che sta precipitando attorno a noi-, gli subentra una costruzione inerziale fatta di virtualità (il vuoto materializzato come entità percettiva). Ci si illude di essere ancora nei “familiari rioni”, ma la virtualità non li riproduce veramente : essa non imita, è un inganno, un’illusione ottica che si presenta come nostro unico possibile alloggio. In questo spazio tutto è supposto essere ciò che desideriamo e il prima, smarrito dalla nostra memoria, si dissolve nell’anestesia.

È la prospettiva di Agamben iperbolica? O, forse, apocalittica come qualcuno, che confonde la speranza con la consolazione, potrebbe dire? Si confrontino le parole del filosofo italiano con quanto scrisse, quasi un secolo fa, Walter Benjamin:  «C’è un quadro di Klee che s’intitola “Angelus Novus”. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, al bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto.

Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta». (“Angelus Novus. Saggi e frammenti”, Einaudi)

Benjamin formulò questi pensieri in prossimità dell’apocalisse. La nostra casa oggi, come allora, brucia. E la distruzione della natura, la pandemia, la guerra non solo denunciano la mancanza scellerata di una politica di prevenzione delle catastrofi, ma mostrano anche la sconcertante incapacità di pensare il futuro. I pionieri di un futuro senza avvenire, come Zuckerberg, già costruiscono il nostro rifugio/tomba chiamato “metaverso”: vivere immersi nella virtualità sovrapposta al mondo reale. Come l’Angelo Novus volgiamo le spalle al futuro e spinti dalla tempesta della storia andiamo verso il nulla.

Possiamo abbandonarci a visioni che ci stordiscono o avere visioni che sono chiaroveggenza. Vogliamo ancora riservare a queste ultime il destino di Cassandra?