L’inizio della presidenza Trump si può considerare come l’ultima ed estrema affermazione di una destra ultranazionalista e xenofoba che da alcuni anni sta montando nei maggiori paesi europei.

Pur tra le differenze, che non si possono trascurare, v’è un elemento comune e fortemente caratterizzante di queste espressioni politiche: la decisa avversione all’immigrazione.

E’ stato questo il fattore decisivo per la vittoria di Donald Trump nelle elezioni americane, come per il successo di Farage nel referendum per la Brexit. E’ questo il lievito più forte del crescente consenso di Marine Le Pen in Francia, di Geert Wilders in Olanda e di altri nazionalisti e xenofobi in vari paesi europei.

Il fatto, poi, che governi di centro-sinistra o persino socialisti inseguano le destre sul loro stesso terreno sperando di arginare i loro guadagni elettorali non fa che rafforzare questi orientamenti in settori sempre più larghi dell’opinione pubblica.

Purtroppo stiamo assistendo al dilagare di una vera e propria patologia che affligge la società tardo capitalista aggravata notevolmente con le politiche neoliberiste. Una malattia che colpisce due volte le sue vittime. La prima quando subiscono un peggioramento delle proprie condizioni di lavoro e di vita. La seconda quando vengono ingannate sulle cause della crisi ed il malcontento viene strumentalizzato da chi ne è diretto responsabile.

In altri termini, ciò cui stiamo assistendo è il riproporsi di una dinamica non nuova e perversa.

Quando non s’intravvedono sbocchi possibili per un futuro migliore, i ceti più deboli ed esposti sul piano inclinato del peggioramento vedono nella status di chi è più vicino e più in basso la minaccia di una condizione in cui è possibile scivolare. E’ in queste situazioni che monta l’avversione verso tutto ciò che è esterno, avvertito come pericoloso. Un sentimento sul quale è facile far leva per le destre come per tutti i ceti dirigenti incapaci di autentica azione di governo e orientamento politico, ma solo di amministrazione dell’esistente al servizio degli interessi dominanti.

In queste condizioni il disorientamento politico di popolazioni che non intravedono alternative ci ha condotti ad una soglia critica oltre la quale s’apre una biforcazione.

Da un lato è possibile ed anzi probabile che cresca il consenso verso chi alimenta false paure e fa leva su istinti di autodifesa. La prospettiva è quella di una chiusura crescente in false identità di nazione, razza, “civiltà”. L’esperienza storica c’insegna che una società chiusa non ha futuro ed è destinata alla fine per entropia.

L’alternativa è andare controcorrente e lottare vigorosamente per un’organizzazione sociale aperta alle trasformazioni.

Il banco di prova per le forze di sinistra e per tutti coloro che intendono battersi per un radicale mutamento del modo di funzionare del sistema è rappresentato proprio dalla nuova ondata migratoria.

La consapevolezza che questa, come le altre due grandi migrazioni precedenti, tra fine Ottocento e primo Novecento e nel secondo dopoguerra, non è arrestabile ed è destinata ad incidere profondamente sugli equilibri demografici, sui rapporti sociali, gli assetti politici e i modelli di cultura dei paesi euro-atlantici deve costituire il punto di partenza di un approccio affatto diverso al fenomeno.

Pensare ai modi migliori per governarlo e svilupparne tutte le potenzialità significa apprestarsi ad un mutamento storico. Significa cominciare a far valere una verità elementare. E cioè che la rivendicazione di diritti fondamentali di uguaglianza e libertà, di aspirazione alla costruzione di una vita migliore non può riguardare solo alcune popolazioni. Quei diritti valgono per tutto il popolo-mondo o mancano del fondamento della loro universalità.