Incalzato da Grillo, che lo aveva sfidato direttamente scrivendo sul suo blog che nonostante la disponibilità del M5S nessun segnale era arrivato dal capo del governo, Renzi fissa il sospirato incontro per mercoledì prossimo. Chiede però chiarezza sul carattere della rimpatriata. I pentastellati si sono rivolti a lui come capo del governo, nel quale caso la sede naturale del vertice sarebbe palazzo Chigi, o come segretario del Pd, nel qual caso Renzi si presenterebbe non con una delegazione di ministri e sottosegretari ma scortato dai suoi parlamentari?

Faccenda secondaria. L’incontro ci sarà e per Renzi è comunque un successo, il riconoscimento ufficiale del suo ruolo e della piena legittimità acquisita grazie al voto. Certo il dialogo con Grillo non porterà frutti immediati. Renzi a sostituire il cabarettista di Arcore col comico genovese quale partner numero uno nelle riforme non ci pensa per niente. Ma l’avvio di un dialogo, sia pur difficile, tra Pd e M5S è destinato a modificare ulteriormente i rapporti di forza a favore del segretario/premier. La paura di un asse tra i due principali partiti, non tanto sulle riforme quanto sulla legge elettorale, costituirà inevitabilmente un ulteriore e fortissimo strumento di pressione su Berlusconi.
Ieri i plenipotenziari di Pd e Forza Italia, la ministra Boschi e il capogruppo azzurro Romani, si sono tempestivamente incontrati. Non hanno risolto niente e niente si proponevano di risolvere. Il summit è durato pochissimo ed è finito con un classico giudizio positivo, ma non definitivo.

Tutto bene, ma qualcosa da definire ancora c’è. Subito dopo Anna Finocchiaro è tornata a parlare di un senato composto per due terzi da rappresentanti delle Regioni e per un terzo di sindaci, smentendo così le proporzioni di tre quarti e un quarto sulle quali si era già quasi raggiunta l’intesa. È il segnale che si sta giocando una partita in realtà più politica che tecnica.

Il Pd ritiene che Berlusconi non abbia ancora fatto una scelta definitiva. Probabilmente è vero. Il capo azzurro ripete che lui dal processo riformatore non vuole autoescludersi. Ma i suoi parlamentari la pensano diversamente, non apprezzano affatto il senato modello Renzi e lo dicono apertamente. Non mitragliano solo i battitori liberi come Minzolini: lo stesso capo dei deputati Brunetta non esita a dire che secondo lui questa è «una riformetta» e che non la si dovrebbe votare. Non si ribelleranno, perché Fi resta un partito padronale e su chi abbia l’ultima parola non c’è dubbio. Però una resistenza così forte e diffusa non può non pesare.

Tanto più che ai malumori dei parlamentari si sommano quelli dell’imputato Berlusconi. Oggi inizia l’appello del processo Ruby. Dovrebbe finire presto. Potrebbe finire con una condanna pesantissima. Certo, poi ci sarà ancora da attendere la Cassazione, ma dopo l’esperienza dell’estate scorsa su quella carta il già condannato conta pochissimo.

Al momento il processo è la sua principale preoccupazione e nessuno, probabilmente neppure lui stesso, può dire con certezza quali saranno i contraccolpi politici di un’eventuale condanna.

A fronte delle esitazioni del socio contraente, il Pd, come da manuale, replica rimettendo in discussione le proporzioni già quasi concordate della composizione del senato. A tira e molla del genere sarà bene abituarsi: inevitabilmente proseguiranno sino all’ultimo momento utile. Ma con la Lega ancora decisa a sostenere Renzi in cambio del Titolo V e la minaccia dell’asse con un Grillo finalmente uscito dal surgelatore, la decisione di Berlusconi, almeno su questo fronte, sembra già segnata.