Non si può certo dire che in questi anni il parlamento e le altre assemblee elettive siano stati esenti da critiche severe. Li si è, al contrario, frequentemente (e molto spesso a ragione) fustigati per i comportamenti censurabili dei loro componenti (basti pensare alla faccenda dei rimborsi facili). Sulla questione dei «costi della politica» si sono costruite piccole e grandi fortune di opinionisti e forze politiche interpreti della protesta «antipolitica».

Il punto è che sempre il discorso si ferma sulla questione dei soldi, cioè in superficie o a metà strada. Si denuncia il malcostume degli stipendi d’oro e degli innumerevoli privilegi, ma ci si guarda bene dall’interrogarsi sulle cause del problema, sulla sua natura.

Il grande imputato in tutti questi discorsi è l’immoralità del ceto politico. Che indubbiamente c’è e incide. Tant’è che varrebbe la pena di domandarsi se sia ancora accettabile, dopo tante esperienze disastrose, che i parlamentari decidano in totale autonomia delle proprie remunerazioni e del corredo di benefici (vitalizi, rimborsi ed esenzioni, coperture assistenziali ecc.) di cui godono. Non è, questo, il meno odioso dei numerosi conflitti d’interesse che ci affliggono. Resta che, limitando il discorso al malcostume dei politici, sfugge la sostanza.

Ciò che non per caso si omette di considerare è che stipendi d’oro e privilegi sono essenzialmente strumenti per la corruzione di quanti ne godono. Corruzione che deve essere – oltre che denunciata – indagata nella sua ratio politica. Qui il discorso si salda a quello, avviato qualche giorno fa su queste pagine, sul trasformismo parlamentare. A guardar bene, anzi, si tratta di un unico discorso. Proprio come il trasformismo, gli stipendi d’oro e i privilegi dei parlamentari servono in primo luogo ai governi per ridurre in soggezione il parlamento. Che ciò avvenga con l’attiva connivenza dei parlamentari medesimi non è un’obiezione. Ciò rende questi ultimi complici di un processo letale per la democrazia. Ma la sostanza evidentemente resta. E chiarisce la natura politica della «questione morale», sulla quale aveva cercato di attrarre l’attenzione ai suoi tempi Enrico Berlinguer, restando ovviamente inascoltato.

C’è una prova inconfutabile di questo nesso: la progressione storica degli emolumenti dei parlamentari, da leggersi in stretto rapporto con il modificarsi del rapporto tra parlamento e governo all’alba della «seconda Repubblica». La carriera dei parlamentari diventa un affare d’oro in senso stretto proprio negli anni Novanta, quelli delle rovinose «riforme istituzionali» (maggioritario e bipolarismo) che avrebbero dovuto dare efficienza al sistema per garantire la «governabilità» del paese. C’è un filo rosso (o nero) a collegare tutte queste riforme, un filo che ne dichiara l’anima piduista. Il parlamento doveva essere messo in mora: bisognava a tutti i costi ridurne l’autonomia e la capacità di interferire criticamente nell’azione di governo. A questo fine si è provveduto a «semplificare» la composizione politica delle Camere (tagliando soprattutto «l’ala sinistra» dello schieramento politico) e a consegnare alle segreterie dei partiti il potere di nomina degli «eletti». Mentre si è venuta conferendo al governo anche gran parte della funzione legislativa.

Ebbene, non è un caso che, proprio mentre si introducevano tali modifiche (che smontavano di fatto il sistema parlamentare disegnato in Costituzione), si siano versati fiumi di denaro nelle tasche degli «eletti», con il risultato di trasformare lo status del parlamentare in una condizione di assoluto privilegio, conservare la quale è divenuto per tanti un fine in sé, di gran lunga prioritario rispetto ai compiti prescritti dal servizio della rappresentanza democratica. Oggi lo stipendio netto di un parlamentare italiano è circa 14 volte quello medio di un operaio e 11 volte quello di un insegnante, mentre fino alla metà degli anni Novanta il rapporto era rispettivamente di 8 e di 6 a 1 (già molto elevato ma forse non ancora scandaloso). La retribuzione media netta dei parlamentari italiani si è raddoppiata in termini reali, passando dall’equivalente di 7mila euro mensili alla bellezza di 14mila euro. Ragion per cui oggi, a un semplice parlamentare, una legislatura frutta almeno 800mila euro, incomparabilmente di più di quanto possa portare a casa in un’intera vita di lavoro un operaio o un impiegato che abbia la fortuna di lavorare continuativamente.

In questo scenario va letta anche la norma che regola la concessione dei vitalizi. Era certamente inaccettabile quanto avveniva in passato, quando si percepiva il vitalizio non appena si cessava dalla carica, a qualunque età e indipendentemente dal periodo trascorso in parlamento. Per ovviare allo sconcio si è giustamente differita l’erogazione del vitalizio al compimento del sessantacinquesimo anno di età e la si è condizionata alla permanenza in carica per almeno un’intera legislatura. Ma l’effetto perverso è che tenere in vita le legislature è quindi diventato un fine in sé, indipendente da qualsiasi ratio politica. Il parlamento in carica preserva se stesso per garantire i privilegi agli «eletti», senza che ciò abbia necessariamente rapporto con la dialettica politica tra le forze rappresentate.

Se tutto questo è vero, appare evidente come questa vergognosa «politica dei redditi» dei parlamentari sia stata la via regia della corruzione, percorrendo la quale è stato conseguito (senza modificare la Costituzione formale) un risultato analogo a quello che il fascismo aveva ottenuto per via legislativa tra il 1925 e il ’26. Anche con questi mezzi (oltre che modificando leggi e regolamenti) si è riusciti a ridurre il parlamento al rango di collaboratore subordinato del governo, a sua camera di ratifica. In questo stesso quadro si colloca il trasformismo parlamentare. Del quale è possibile comprendere la ricorrenza e misurare gli effetti politici soltanto tenendo presente tale scenario complessivo.

Motivati dai ricchi emolumenti e dai privilegi dello status, molti parlamentari vogliono soprattutto persistere nel proprio ruolo. Di qui la forte propensione a cambiare collocazione politica, al duplice scopo di «stabilizzare» la legislatura e di garantire a se stessi relazioni più proficue in vista della rielezione. Avvalendosi di tale stato di cose, i governi a loro volta si sbarazzano di un potere autonomo concorrente, divenendo arbitri monocratici della dinamica politica. In questo quadro davvero la dialettica parlamentare si riduce a un’opera di teatro: alla liturgia di un parlamento che simula lo svolgimento delle proprie funzioni. Denunciare tale stato di cose non è, come forse si ritiene, moralismo. È il solo modo alla nostra portata per contrastare l’agonia della democrazia parlamentare.