L’esodo di migliaia di honduregni verso gli Stati Uniti non poteva non riaccendere i riflettori sull’illegittimo governo di Juan Orlando Hernández. Un’attenzione di cui il contestatissimo presidente – riconfermato alla guida del paese grazie alla spudorata frode elettorale realizzata alle presidenziali dello scorso anno – avrebbe volentieri fatto a meno, non essendo certo un buon biglietto da visita per il suo governo il fatto che l’Honduras si stia praticamente spopolando.

Sommerso dal discredito per tutto ciò che la carovana dei migranti ha inesorabilmente portato alla luce nel suo paese – la povertà estrema, la repressione, la violenza, la corruzione dilagante – Joh, come il presidente viene sbrigativamente chiamato, deve pure affrontare l’ira di Donald Trump, cioè di colui che all’epoca delle proteste popolari contro il risultato elettorale gli aveva di fatto consentito di mantenersi al potere.

E proprio il presidente statunitense lo schiaffeggia ora senza pietà, accusandolo di non aver impedito la fuga della sua popolazione: «Vi paghiamo centinaia di milioni di dollari l’anno, che assai probabilmente finite per rubarvi, e in cambio per noi non fate nulla», avrebbe detto Trump al suo omologo honduregno, secondo la dichiarazione rilasciata dallo stesso presidente Usa il 4 novembre scorso.

Offeso, il governo di Joh aveva respinto sdegnosamente, con un comunicato il giorno successivo, «le dichiarazioni relative a un presunto cattivo impiego delle risorse della cooperazione offerte dall’amministrazione Usa», sollecitando «una rettifica al riguardo». Ma la rettifica non è arrivata.

Mentre è arrivato, con il voto favorevole della stessa opposizione, il rifinanziamento di quel Fondo de Desarrollo Departamental che, creato per l’esecuzione di progetti sociali nei diversi dipartimenti del paese, era stato poi cancellato in seguito agli scandali di corruzione legati all’uso di tali risorse da parte dei parlamentari. I quali, appena poco tempo prima, si erano aumentati di quasi il doppio il loro salario proprio con la scusa che, in assenza del Fondo dipartimentale, non avrebbero potuto finanziare i progetti richiesti dalle rispettive regioni.

In questo quadro, non meraviglia più di tanto che l’opposizione non riesca ad approfittare della crisi determinata dalla carovana dei migranti per mandare a casa Joh. A invocare le immediate dimissioni del presidente e la creazione di un governo di transizione incaricato di traghettare il paese verso un nuovo e stavolta trasparente processo elettorale è stata, il 7 novembre, la neonata Plataforma Ciudadana, che riunisce i rappresentanti dell’opposizione e di diversi settori sociali.

Ma quello che manca è il passo decisivo: la convocazione di proteste e mobilitazioni come quelle che hanno paralizzato il paese per due mesi all’indomani delle presidenziali, un calendario di lotta che, nell’attuale momento di crisi affrontato dal governo, potrebbe finalmente mettere la parola fine alla dittatura di Joh.