«Siamo tutti in uno specchio e ciascuno di noi è un riflesso dell’altro. Solo specchiandomi nella tua diversità posso capire chi sono io». Molte sono le ragioni per cui la notizia della scomparsa di Fatema Mernissi lascia un senso di solitudine. E altrettante sono quelle che conducono a un desiderio di gratitudine verso i lunghi anni che ha dedicato alla scrittura narrativa e saggistica, alla militanza politica, al femminismo e alla libertà femminile.

Intorno a quello specchio in cui ciascuno è il riflesso dell’altro, Mernissi aveva meditato davvero, convinta come era che la conoscenza fosse l’unico metodo da utilizzare per la rivoluzione e la convivenza delle differenze. Di tutto ciò che ha vissuto ha restituito tesori, dall’esperienza dei suoi anni d’infanzia, quelli nell’harem di Fez e delle sue prime dissidenze critiche nei confronti di una cultura arabo-islamica che dovesse rispondere alla complessità delle relazioni tra i sessi, con la relativa decostruzione di un ’immaginario maschilista e patriarcale. Raffinata e tagliente lettrice del Corano, sociologa e docente all’Università Mohammed V di Rabat, il Marocco perde una delle più acuminate, irriverenti e sapienti intellettuali contemporanee. La terrazza proibita (1996) è forse uno dei suoi libri più noti in Italia ma anche altri titoli ne hanno segnato la circolazione; in particolare Le sultane dimenticate (1992), Chaharazad non è marocchina (1993), L’Harem e l’Occidente (2000), Islam e democrazia (2002).

Come ricorda la giornalista Mona Eltahawy, insieme ai nomi di Huda Sharaawi, Doria Shafik, Nawal al-Sa’dawi, anche il nome di Fatema Mernissi ha rappresentato un punto di riferimento preciso, la possibilità per generazioni di donne di acquisire un nuovo linguaggio, dell’appropriarsi di una genealogia femminista. Sarebbe sufficiente ricordare il suo primo libro Beyond the veil. Male-female Dynamics in Modern Muslim Society (1975) in cui viene offerta una diversa interpretazione dei versetti coranici inerenti il velo e il conflitto – sotteso a tutte le religioni monoteiste – tra «divino» e «femminile» con le ricadute nella relazione tra i sessi.

Animatrice di reti e imprese culturali, Mernissi ha inoltre saputo riconoscere l’importanza delle nuove tecnologie in relazione alla tradizione, ha lavorato duramente per osservare le trasformazioni socio-politiche del Marocco rappresentandolo come un mondo non esotico né stereotipato ma ricco di meraviglie. Come si legge nel suo Karawan. Dal deserto al web (2004), in cui tenta di smontare alcuni luoghi comuni che confondono chi decide di conoscere le preziosità del Marocco.

Primo fra tutti il malinteso secondo cui i cambiamenti si producono più al centro che nelle periferie, ci sono infatti più mutamenti nei paesini dell’Alto Atlante e nel deserto di Zagora e Figuig che nelle grandi Casablanca e Rabat. E ancora spazio è dedicato alla convivenza e al confronto della biculturalità di arabo e berbero, un vantaggio che facilita l’apprendimento di ulteriori lingue. Considerare l’occidente come superiore, più istruito e avanzato rispetto al resto del mondo sempre sull’orlo dell’analfabetismo? Le figlie e i figli delle tessitrici marocchine analfabete raccontano una storia diversa, quella della riconoscenza per un sapere antico – delle proprie madri – che va a poggiare con quanto si riesce a comunicare e svelare tramite internet. A tal proposito, Mernissi si domanda: «che sia perché tessere un tappeto, e cioè realizzare un progetto labirintico, richiede la più assoluta concentrazione?».

Della sua morte ne dà l’annuncio Jamila Hassoune, che alla metà degli anni Novanta da Marrakech comincia il primo esperimento di libraia nomade e itinerante nelle zone rurali del Marocco, e da cui Fatema Mernissi si fa ispirare. È un contagio fecondo che nel 1997 fa nascere l’esperienza prima della Carovana Civica che discute di democrazia e cittadinanza e poi della Carovana dei libri, rivolta alle scuole. «Diventerò una maga. Cesellerò le parole», scriveva con amore incrollabile verso l’incontro con l’altro, con le donne e gli uomini che abitano i margini, per condividerne e impararne i sogni, un modo felice di «rendere inutili le frontiere».