Sono mesi che Donald Trump non tiene una vera e propria conferenza stampa. A parte un paio d’interviste, con il Nyt e con 60 Minutes, si è limitato, anche da president elect, a fare qualche battuta occasionale con i cronisti, preferendo continuare a comunicare via twitter. Messaggi come sempre eccentrici – si direbbe volutamente non filtrati e neppure davvero ponderati, un flusso di coscienza apparentemente incontrollato – nell’evidente disegno di continuare ad avere una relazione diretta, disinibita, «autentica», con gli americani, non mediata dagli invisi giornalisti. Anche questa stravaganza, se c’era bisogno di ulteriori indizi, conferma che l’amministrazione Trump che s’insedierà il 20 gennaio non ha letteralmente precedenti.

Conviene perciò, tutti, cominciare a misurarsi con questa incredibile e incresciosa novità, senza fare ulteriori sforzi per rifarsi a esperienze precedenti, che, appunto, non esistono, né per immaginare improbabili forme di normalizzazione del tycoon-presidente, una volta alle prese con la realtà dura della gestione del luogo più potente della terra, la Casa Bianca. Il Trump presidente sarà in perfetta continuità col Trump candidato. Il Trump presidente continuerà a essere il Trump affarista.

Anche la prossima prevista conferenza stampa dell’11 gennaio pare sia stata fissata non certo per darsi in pasto ai cronisti, piuttosto per distrarre l’attenzione dei media dall’oggetto principale della loro curiosità: il nuovo governo che darà sostanza alle sparate del presidente, ora alla prova d’esame del Congresso.

Quello stesso giorno è infatti fissata l’audizione parlamentare dei principali ministri dell’amministrazione Trump. E proprio mercoledì Mitch McConnell, il capo dei repubblicani al senato, ha messo in agenda la cancellazione della riforma sanitaria, l’Obamacare, senza un piano sostitutivo.

Il combinato di quest’ultima iniziativa e della prima conferenza stampa di Trump dovrebbe facilitare le ratifiche, da parte delle rispettive commissioni senatoriali, di ministri a dir poco controversi, allentando su di loro la curiosità dei media. Secondo il calcolo di McConnell, il nuovo presidente sarà in grado di insediarsi, disponendo di tutto il Team Trump in condizione di operare dal day one della nuova era.
E questo sarà un fatto politico molto rilevante, ben più delle battute estemporanee di Trump affidate a twitter o di quelle che ascolteremo mercoledì prossimo nella sua conferenza stampa. Il nuovo gabinetto contiene in sé una carica dirompente di distruttività politica, rispetto al lavoro riformatore, portato avanti, con tutti i suoi limiti e inadeguatezze, dall’amministrazione Obama e che adesso, di fronte alla mannaia di The Donald, appare un programma rivoluzionario.

Il passaggio delle audizioni è dunque un momento delicato per il nuovo presidente e per la leadership repubblicana, che ormai procedono di conserva, con quest’ultima decisamente allineata a Trump, anzi a lui subalterna, dopo esserne stata avversaria, in certe fasi della campagna elettorale anche più della stessa Clinton.

In particolare, lo stato maggiore repubblicano punta a sigillare il più possibile la nomina di Rex Tillerson, considerato vulnerabile per via della sua relazione personale con Vladimir Putin. In alcuni incontri preliminari al Congresso, Tillerson avrebbe garantito di essere pronto a usare anche i modi duri con il Cremlino. Ma lo affermerà anche nell’audizione pubblica? E si dirà disposto a tenere in vita le sanzioni contro Mosca per l’Ucraina? Ovvio che queste domande acquistino più peso mentre s’intensifica la surreale polemica tra l’attuale amministrazione e quella entrante sul ruolo dei servizi di spionaggio russo nelle elezioni presidenziali che hanno portato Trump alla Casa Bianca. Non si sottovaluti il fatto che, nella gerarchia del potere, il segretario di stato è il numero tre e, in caso di uscita di scena del presidente e del vice-presidente, è lui il commander-in-chief.

Ma andrà come sperano Trump e McConnell? Si sta accumulando una tensione tale intorno al nodo delle relazioni con la Russia di Putin che, diversamente dai calcoli di Trump e dei repubblicani, la giornata di mercoledì potrebbe trasformarsi in un happening fuori controllo, un rodeo che metterebbe a nudo l’improvvisazione pericolosa del tycoon trasformatosi in presidente e della bizzarra compagnia di miliardari e/o reazionari che sarà la sua squadra.

Su tutto questo l’ombra del discorso d’addio di Barack Obama, fissato per le 21 di martedì 10 gennaio. Il maestro della comunicazione tirerà fuori tutto il suo talento per marcare la differenza tra quel che gli americani si lasciano alle spalle e quello che avranno dopo di lui, ma soprattutto per mandare in tilt la fragile operazione messa in cantiere il giorno dopo dai suoi avversari di oggi.