Fatta ogni possibile e debita tara sul fatto che il rock è un ultrasessantenne all’anagrafe piuttosto arzillo, ancora, e che chi lo incarna però spesso ha l’aspetto di un nonno trasandato e piuttosto astioso, bisogna dire che le eccezioni ci sono, e contano. La signora Joan Baez, ad esempio, sembra incarnare nella lettera e nello spirito (che sarebbe come dire, nel corpo e nell’ispirazione, per chi tutta la vita è stata sui palchi) quanto il piccolo grande uomo della canzone popular del secolo scorso – peraltro suo compagno di vita per un paio d’anni piuttosto burrascosi – sperava per le persone più care a lui attorno: che fossero Forever Young. Si augurava, Bob Dylan, che quella persona destinata a essere «per sempre giovane» potesse avere «solide fondamenta, quando cominciano a spirare i venti del cambiamento».

DOCUMENTI D’IDENTITÀ
Perché è ben vero che spesso chi nasce incendiario finisce pompiere, più difficile, senza essere patetici, continuare a credere, morettianamente, di avere avuto idee belle e nobili in gioventù, e saperle brandire senza che le stesse diventino stucchevoli oggetti contundenti mezzo secolo dopo, come lei. Joan Baez è tutto questo, a vederla oggi. Una signora di settantasette anni che sbeffeggia la data scritta sul documento d’identità, esile e flessuosa come una ragazza, e con l’unico vezzo di tenere i capelli imbiancati nel colore vero che hanno assunto, non più lunghi, ma a ciuffi corti, a contornare un viso radioso.
Lei è per davvero «forever young», perché nulla ha fatto di artificioso per mantenersi tale. Però, come si dice nel folk, «seasons they change», le stagioni passano e cambiano, e così la bella Joan Baez, una vita intera di battaglie civili col sorriso sulle labbra e un milione di armonici nella voce, prima volta su un palco da «professionista» nel lontanissimo festival di Newport del 1959, ha annunciato che è venuto il momento di smetterla con i tour massacranti e continui che da giovani sono cavalcate entusiasmanti, e quando invece gli anni sono tanti un fardello faticoso da portare. Anche se la chitarra non finirà appesa al canonico chiodo, perché ci sarà sempre una buona causa per riprenderla in mano, dice lei, e il signor Trump, bisogna dire, alimenta da par suo le aspettative quotidianamente, con la demolizione sistematica di ogni presupposto del vivere civile.

ALTRE VITE
D’altra parte, poi, la vita è anche altro: ad esempio dipingere, una passione che Joan Baez condivide con un’altra signora collega del canto anni Sessanta e Settanta, Joni Mitchell. Dunque, fine dei tour con un ultimo tour: in Italia la vedremo ancora però la prossima estate, tra il 5 e il 9 agosto, a Verona, Roma, Udine e Bra. Perché anche le leggendarie tre ottave di voce vanno sfaldandosi, e una come lei, che ha cantato per una vita senza sforzo non vuol fare la parodia di sé stessa e andare avanti a forza di consigli di un vocal couch. Di certo, anche, che la Signora che ha iniziato prima di Bob Dylan, e che dell’invecchiato bardo di Duluth è stata peraltro la miglior interprete in assoluto (nel ’68 Any Day Now, uno strepitoso album di cover dylaniane, a proposito di ricorrenze) lascia anche in questi giorni un ultimo regalo: un nuovo disco, dopo che i fan già avevano potuto gustare il doppio disco dal vivo stipato di ospiti e amici che aveva festeggiato il suo settantacinquesimo compleanno. Si intitola Whistle down the Wind, ed è una gemma rilucente di tante piccole gemme messe assieme, dieci in tutto: cover di canzoni amate e parecchi inediti, per una Joan Baez che tutto sembra, qui, tranne che l’appannata reduce di un’epoca in cui, come ha precisato lei di recente, le canzoni come We Shall Overcome e Blowing in the Wind forse non avranno cambiato il mondo, ma qualche coscienza di sicuro l’hanno scossa proficuamente.
Certo, a volte la voce si affatica a salire di tono, non c’è più la svettante sicurezza nel domare l’indomabile con quel canto disteso e il vibrato magnifico, ma è un elemento di fascino in più. Incrementato, peraltro, dagli arrangiamenti curati da Joe Henry, che ha scelto una dimessa e sognante veste acustica, ma con suoni di assoluta, nitida perfezione. Ci troverete un paio di cose di Tom Waits, un brano di Mary Carpenter, uno di Josh Ritter, uno di Antony And The Johnsons, perfino la trasposizione musicale di un manoscritto del ‘700 in cui ci si augura «che finiscano tutte le guerre».

LA GUERRA
E la parola «guerra» ricorre due volte, nei titoli del disco: valgono oggi le stesse ragioni per cui si scendeva in piazza mezzo secolo fa, sembra dirci la signora Baez, con sottile understatement. Dunque Joan Baez non lascia: alleggerisce un ruolo faticoso.
E le altre signore di quel reame folk rock che ha dato un salutare scossone alla popular music a stelle e strisce del secondo problematico dopoguerra? Si può procedere in ordine sparso. Joni Mitchell, purtroppo, è fuori combattimento, da anni: col peso di una malattia subdola che le impedisce ogni forma di tranquillità e di creazione artistica. Carole King, come Joan Baez attiva da almeno cinque decenni vive di (bei) ricordi: inattiva da vari anni, salvo saltuari incontri e imprese con l’amico ed ex compagno di vita di mille avventure James Taylor, s’è vista tributare una commedia musicale di Broadway, Beautiful: the Carol King Musical, e, l’anno scorso, è uscito il dvd che documenta l’esibizione a Hyde Park del 2016, quando Carole ha risuonato per intero il suo disco più grande, Tapestry. Emmylou Harris, oggi con una discografia assestata oltre le cinquanta produzioni, escluse le antologie e i live, condivide con Joan Baez i capelli bianchi esibiti con nonchalance blasé, e un’ispirazione che non sembra perdere colpi: l’ultimo disco, del 2015, assieme a Rodney Crowell, The Travelling Kind è un altro bel colpo piazzato. E un colpo da maestra l’ha piazzato un’altra signora della generazione della Baez con i capelli bianchi, Judy Collins, la «Judy dagli occhi blu» che cantavano negli anni ’70 Crosby, Stills, Nash & Young.
S’è regalata nel 2017 Everybody Knows, corposo disco in duo con l’amore di gioventù Stephen Stills, e davvero viene voglia di dimenticare l’anagrafe, a sentire lo spessore del tutto. Di certo non ha perso colpi neppure Bonnie Raitt, l’anima più rock e inquieta delle cantautrici: un diesel che macina grandi canzoni disco dopo disco ancora oggi.
Una segnalazione a parte la lasceremo per chi, negli anni Sessanta e Settanta, si trovava a cantare le stesse canzoni di Joan Baez, e portava sulla pelle, da donna, i segni di un’ulteriore «alterità»: essere songwriter con sangue da nativa americana. Buffy St. Marie, attiva discograficamente dal ’64, e per un certo periodo voce nota anche nel Bel Paese, quando scrisse il tema magnifico del film Soldato Blu, lo scorso anno con Medicine Songs ha mostrato che lei non molla d’un centimetro, sul tema dell’impegno.
E il disco, infiltrato di rap e indie rock è tutto tranne che nostalgia dei bei tempi in cui la gente scendeva in piazza con i cartelli contro il macello del Vietnam. Scomparsa invece la misteriosa (e solare al contempo) songwriter nativa Leonda, autrice dell’unico disco capolavoro, Woman in the Sun.
Incredibilmente, ha ricominciato a dare segnali di vita e di musica anche la dimenticata e magnifica Linda Perhacs, autrice di un disco di culto «baeziano» e «mitchelliano» assieme nel 1970: nel 2014 è tornata sulle scene, per restare, si spera.
È tutto? Macché. Per documentarsi meglio, sulle signore sulle orme di Joan Baez, andate ad ascoltare Wayfaring Strangers, Ladies from the Canyon, 2006. Ne troverete delle belle.