È un paradosso, ma di situazioni paradossali vive la nostra epoca, lasciato cadere il precario manto della razionalità ad ogni refolo di mercato. Nel mondo si vendono sempre meno dischi. Intendendo, al momento, gli oggetti luccicanti che da un trentennio chiamiamo «compact disc». Un po’ meglio, a sorpresa, va la nicchia degli ellepì, i rassicuranti padelloni in vinile che hanno strappato qualche punto percentuale, negli ultimi anni, riconquistando la fiducia di giovani che non avevano conosciuto il fascino del grande formato, o recuperando l’ardore dei «diversamente giovani» che gli ellepì li compravano in tempi gloriosi per le sorti discografiche. Dunque, si vendono sempre meno dischi. Ma, al contempo, l’offerta diventa sempre più mastodontica. E non si parla qui del fatto che con un «click» ti accaparri in rete la più astrusa o bizzarra delle musiche. Si allude al fatto che certi artisti, genericamente ascrivibili alla categoria del «classic rock», dopo aver lasciato a stecchetto gli appassionati, centellinando le uscite come fossero preziosi reperti di distilleria bisognosi di anni di cantina, alla fine hanno deciso di saturare il mercato. In una sorta di curioso «horror vacui» che li pervade, mentre forse dovrebbe valere il principio contrario, l’horror pleni, merito anche di carriere più che definite.

È notizia di questi tempi, ad esempio, che il songwriter più misterioso e imprevedibile dei nostri tempi, a dispetto dell’anagrafe, Robert Zimmerman in arte Bob Dylan l’uscita di un cofanetto speciale che, se limate il vezzeggiativo del termine, è un cofano vero e proprio. Rammentiamo subito, ad onor del vero, che non è che Mr. Dylan negli ultimi anni abbia lesinato uscite archivistiche: la sua Bootleg Series era ad oggi arrivata al numero undici. Mostrando già pericolose segni di dilatazione: la versione del volume 11, dedicata ai Basement Tapes registrati assieme alla Band a Big Pink era lievitata in edizione speciale a sei cd e centotrentanove brani. Quest’ultima nata, The Bootleg Series numero 12: Bob Dylan The 1966 live recordings (Columbia Legacy Recordings), mostruosa creatura di documentazione contiene trentasei interi cd dedicati al tour più incendiario e controverso di Dylan, almeno secondo la mitografia ufficiale.

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Europa, Usa, Australia. Due mesi di galoppata frenetica, anfetaminica, mezzo secolo fa, in singolare pendant con l’abbrivio creativo del Dylan del momento, tre dischi capolavoro in diciotto mesi. Il «cofanetto»significa una quarantina d’ore ininterrotte d’ascolto, una maratona che probabilmente intaccherebbe la salute mentale anche del più incallito adoratore del Dylan della svolta elettrica. Dunque si archivia definitivamente il notevolissimo volume quarto della Bootleg Series, 1998, che conteneva il concerto di Manchester del 17 maggio 66. A parte, per non farsi mancar nulla, è uscito su doppio cd the Real Royal Albert Hall, il concerto londinese per anni confuso con quello di Manchester, missaggio di Chris Shaw, un principe dei cursori.

Ma si tratta di un «unicum»? Certamente no. In casa King Crimson, acido reame del progressive rock più snob, il signor Robert Fripp da diversi anni porta avanti esperienze d’archivio a botte di supercofanetti a dir poco elefantiaci, senza considerare che, a lato della discografia ufficiale, scorre un mare di reperti «Live» su cd acquisibili tramite il Collector’s Club. Ora però sono in giro, nell’ordine: Road To Red, cofanetto da ventuno cd con il tour canadese e statunitense del 1974, un dvd, due dischi blu – ray, a documentare Red, disco capitale. E poi Starless Deluxe box, ventisette cd sulla base di Starless and Bible Black, registrazioni dal 1973, compresi i leggendari Blue tapes, nastri speciali già concepiti in origine come documentazione.

Il Thrak box offre invece sedici cd sul periodo del “doppio trio” che lavorava sull’improvvisazione. Ultimo nato, On (And Off) The Road 1981 – 1984, undici cd, tre dvd, tre blu -ray, sull’incarnazione Crimson del periodo di Discipline, Beat, Three of a Perfect Pair. Il «mostruoso» catalogo, a oggi, è questo.