C’era da scommettere che, prima o poi, qualcuno avrebbe elevato i selfie a forma d’arte contemporanea. Il 31 marzo la Saatchi Gallery di Londra inaugura la mostra Dal selfie alla self-expression, evoluzione dell’autoritratto da Velàzquez, Van Gogh, Frida Kahlo, ai selfie realizzati da artiste come Cindy Sherman (conosciuta per gli autoritratti concettuali), Juno Calypso (che nei self-portrait diventa Joyce), la provocatoria Tracey Emin, passando per gli autoscatti di politici e attori di Hollywood. Siccome il selfie è democratico perché chiunque se lo può fare, la Saatchi ha anche indetto un concorso mondiale aperto a chiunque e che esporrà i dieci migliori selfie realizzati da non ancora noti.

Se da una parte ci sono artisti che interpretano in chiave critica e creativa la smania contemporanea dell’autoritratto, dall’altra il selfie è preso molto sul serio per mostrare come si è, dove si è, con chi si è, in un parossismo di auto rappresentazione ipertrofica. Questa smania di farsi guardare e guardare ha anche prodotto nuove figure della comunicazione come gli/le influencer, persone che non devono nemmeno più raccontare dove sono o che cosa fanno, perché basta che si fotografino a un evento, in un luogo o accanto a un prodotto per crearsi un codazzo di follower che mettono dei like.
Credo che il selfie sia uno di quei fenomeni che più di tutti fanno sentire la distanza generazionale, detta anche età che avanza. Sarà che ho avuto una madre che non ha mai detto a nessuno dei suoi quattro figli che erano i più belli del mondo, sarà che per anni ho evitato le macchine fotografiche perché non mi piacevo mai nelle foto, sarà che ho troppo rispetto per il mestiere del fotografo per osare imitarlo, fatto sta che quando il telefono portatile è diventato anche fotocamera, mi sono tenuta alla larga dalla smania dell’autoritratto.

Confesso, ci ho provato, ma di fronte al risultato ho sempre cancellato le immagini, trovandole orribili. C’è poi da dire che viene un poco da ridere a guardare le persone impostarsi per un selfie, perché quasi mai adottano una postura spontanea. Si irrigidiscono sui tre quarti, allungano il busto, spostano la testa in avanti, sporgono le labbra, fanno finti sorrisi, gli occhioni e…clic. Il faccione è servito. Speriamo che alla Saatchi di Londra ci mostrino nuove strade possibili, sprazzi di autoironia, un certo coraggio nello svelare i propri lati oscuri o nascosti, degli io traballanti anziché tanti ego, una sottile critica al narcisismo imperante e alla miriade di immagini melense che il genere umano ogni giorno dà di sé per mostrare il proprio lato migliore.
Ma poi, quale lato migliore? Quello che nasconde le occhiaie, filtra le rughe e nasconde ogni traccia di storia? O quello che ci mostra sorridenti in vacanza, o che ci ferma nell’attimo in cui siamo riusciti a fotografarci con un nostro idolo, che sia il Papa o un calciatore o un attore? Oppure lo scatto che testimonia che siamo stati a Parigi piuttosto che a Lisbona, e magari per farci le foto ci siamo dimenticati di guardare davvero quello che avevamo intorno? A volte, sembra di essere piombati in un mondo in cui uno dei principali comandamenti è I selfie, dunque appaio. Viene quasi voglia di nascondersi e scomparire, togliersi il nome, firmarsi neanche più con uno pseudonimo, che comunque obbedisce al gioco delle identità, ma chiamarsi, che so, Anonima. Senza nome e senza faccia. Che cosa resterebbe di noi? Non quello che sembriamo o rappresentiamo, ma quello che facciamo, e non è poco, anzi è il massimo. Forse, un giorno, andrà di moda dire: I don’t selfie, dunque sono.

mariangela.mianiti@gmail.com