L’Argentina è una colonia inglese di italiani che parlano spagnolo, questo tra i più vieti luoghi comuni della xenofobia sudamericana viene talora rovesciato nell’altro secondo cui un argentino è un italiano che parla spagnolo ma pensa di essere un inglese. «Oriundo» è comunque la parola che, deducendo per etimologia l’origine, si applica da un secolo agli italiani di ritorno, specie i calciatori, figli e nipoti di quanti fra Ottocento e Novecento dovettero migrare nelle Americhe, in primis Argentina e Brasile. Così una volta ne scrisse Gianni Brera: «I bianchi si vantavano criollos per mero sfizio ma chiamavano cabezitas negras, caprette nere, i connazionali con i volti austeri di Sivori o Maradona. I bianchi erano italiani o spagnoli. Vi fu momento in cui gli abitanti de Argentina libre dovettero adottare la lingua nazionale e furono incerti fra l’italiano e lo spagnolo: poi si dovettero acconciare allo spagnolo perché gli italiani non andavano oltre i dialetti d’origine».

LA CARTA DI VIAREGGIO
Fu il regime fascista a dare configurazione giuridica agli oriundi con la Carta di Viareggio del ’26 che, derogando con perfetta ipocrisia dal vigente nazionalismo, re-italianizzava i cosiddetti «rimpatriati»: in altri termini, ai Mondiali di Roma del 1934, massima costruzione della propaganda littoria, mai avrebbe trionfato la Nazionale guidata da Vittorio Pozzo senza gli apporti di Enrique Guaita, origini comasche, di Renato Cesarini, asso del River Plate e marchigiano bon vivant, come della grande ala sinistra Raimundo Orsi detto Mumo, suonatore di violino e patito di tango. Che poi costoro non avessero un credo esattamente identitario emerse all’annuncio della guerra d’Africa quando per timore di essere arruolati se ne andarono alla chetichella ma bollati quali traditori e reprobi. Del paradosso degli oriundi e del relativo quadro geopolitico tratta Marco Ferrari in Ahi, Sudamerica! Oriundi, tango e futbol (Editori Laterza, pp. 264, euro 18), un volume che riordina una quantità di aneddoti e notizie nei modi di una lineare affabulazione. La materia può essere scandita in epicentri spazio-temporali. Il primo è la Boca, il porto di Buenos Aires, zona di immigrati italiani e specialmente genovesi, culla dei due grandi club che spartendosi equamente il tifo tuttora disputano il derby Superclasico, vale a dire il River Plate (un club poi trasferitosi nel non meno popolare quartiere Palermo) e il Boca Juniors, la compagine proletaria degli xeneizes, «genovesi», che sarà la squadra di Diego Armando Maradona; il secondo epicentro è la città italiana più popolosa al mondo, San Paolo del Brasile, nella cui orografia calcistica svetta il biancoverde del Palmeiras, versione lusitanizzata della antica denominazione di Palestra Italia, la squadra da cui uscirono ad esempio negli anni trenta Pedro Sernagiotto detto Ministrinho, ala destra della Juve dal formato tascabile, e nel dopoguerra uno dei più grandi centravanti di sempre, José Altafini, ascendenti di Rovigo, detto allora «Mazola» (con una zeta sola) per la somiglianza fisica con Valentino, eroe eponimo del Grande Torino; terzo ma non meno decisivo epicentro è da sempre il piccolo Uruguay, patria di un calcio essenziale, ruvido e regolarmente sottovalutato, che però esprime una quota di fuoriclasse inversamente proporzionale al numero dei residenti ed esibisce il palmarès di una squadra di rango mondiale, il Peñarol di Montevideo, il cui nome travisa la piemontesissima Pinerolo: di lì tornarono in Italia ad esempio Andreolo, Sansone, Fedullo, calciatori del Bologna anteguerra («lo squadrone che tremare il mondo fa») così come, successivamente, Juan Alberto Schiaffino detto Pepe, colui che umiliò nel ’50 il Brasile in casa sua (nel disastro nazionale che passò alla storia come Maracanazo) e fu mentore al Milan di Gianni Rivera.

RITRATTI
Viceversa è disposta a mosaico da Ferrari la galleria di ritratti, alcuni dei quali raffigurano figure molto eccentriche (e qui basterebbero i nomi di Juan Carlos Lorenzo, sulfureo allenatore della Lazio anni Sessanta, e l’ineffabile Bruno Pesaola, l’uomo che fumava senza tregua in panchina e che pure fu un tecnico eccellente) oppure vere e proprie icone come i celeberrimi «Angeli dalla faccia sporca», importati nei pieni anni Cinquanta, vale a dire Omar Sivori dalla Juve, l’erede di Cesarini pure nelle intemperanze, Antonio Valentin Angelillo dall’Inter, uno stoccatore di astrale eleganza, e Humberto Maschio dal Bologna, un autentico hombre-orquesta pure se destinato a una carriera in Italia decisamente meno luminosa.
Ma sono arrivi ormai quasi postdatati perché ai Mondiali di Santiago 1962, pur essendo innervata proprio dagli oriundi di classe più spiccata (Maschio, Sivori, Altafini, Sormani, tanto per dire) la Nazionale esce con ignominia al primo turno e quando nel ’66, in Inghilterra, viene scandalosamente estromessa dalla Corea addirittura, la Federazione decide ipso facto di chiudere, e alla lettera, le frontiere calcistiche. In tal modo si ritorna alla situazione dell’Italia prefascista e dunque gli oriundi, a parte i già accasati, ridiventano ufficialmente degli «stranieri».
Decine di costoro affiorano nel ricordo dei tifosi più anziani, nomi di campioni acclamati o di bidoni, come una volta si chiamavano, ma anche e soprattutto di individui presto rientrati nell’anonimato, voci che il tempo ha cancellato come fossero antiche iscrizioni non più decifrabili, volti di individui irriconoscibili, istantanee di mondi trapassati. (E qui va rilevata nel volume di Ferrari l’assenza di una organica bibliografia che pure annovera da ultimo e su tutti, di Carlo Pizzigoni Locos por el futbol, Sperling & Kupfer 2016, un connubio di passione e filologia, ma andrebbero anche menzionate monografie di settore come quella sugli argentini della Juve a firma di un decano del giornalismo sportivo, Salvatore Giglio, Tango bianconero, BradipoLibri 2017, o quella relativa alla Samp di Alberto Facchinetti, Doriani d’Argentina, Cinquemarzo edizioni 2011).

VITE SBANDATE
Tra gli oriundi prevalgono comunque le esistenze andate a male, le vite sbandate, le storie malinconiche e intonate perfettamente al tango che, disse Enrique Santos Discépolo, compositore dell’immortale Cambalache, è appunto un pensiero triste che si balla. Ma il tango non è amato da un oriundo di fama planetaria, Lionel Messi, il cui trisavolo, un Latini, finì a Rosario fuggendo la miseria di Recanati, dove peraltro il pronipote non ha mai messo piede. A parte l’ovvio accostamento tra Giacomo Leopardi e la «poesia» iscritta nelle giocate di Messi, il racconto di Ferrari non ricorda che a due passi da Recanati c’è un altro borgo selvaggio, Potenza Picena, dove talmente atavico è il legame con l’Argentina che in certe osterie si gioca non a briscola ma a Truco. E da Potenza Picena emigrarono gli avi di Mauro German Camoranesi, nato a Tandil nella provincia di Buenos Aires, divenuto campione del mondo con la nazionale italiana nel 2006. Proprio a Camoranesi si deve un piccolo incidente che chiarisce sia i paradossi della condizione dell’oriundo sia la metafisica identitaria che li traveste: infatti a un giornalista scandalizzato dal fatto che rimanesse sempre muto all’Inno di Mameli pare che Camoranesi abbia risposto con candore… chiedo scusa, non è che non lo volevo cantare, è che non lo so… e d’altronde non so nemmeno il mio…