«Nessuna speranza. Nessuna lascivia. / Il demonio affamato / Urla l’apocalisse della creta / A ogni angolo di questa terra». Sono le parole monumentali di uno dei più grandi poeti irlandesi del novecento, Patrick Kavanagh, e sigillano come un masso la sua poesia più potente, The Great Hunger: «La grande fame». Una poesia che parla di privazioni, di povertà, del grido del bisogno tipico di un’Irlanda rurale. Grida il mancato compimento della propria umanità, dovuto a fattori esterni, ma anche a quella cieca devozione chiamata rassegnazione. Ma la poesia è anche il riferimento figurato a un evento che ha plasmato la storia irlandese recente, The Great Famine: «La grande carestia». E sì, perché gli inglesi lo chiamarono carestia, e gli irlandesi fame, quel quinquennio (1845-49) segnato da morti d’inedia, emigrazioni di massa, e malattie. In cinque anni la popolazione irlandese fu decimata: le stime più apocalittiche parlano di un milione di morti e circa tre di emigrati, su una popolazione, secondo un censimento del 1841, di poco più di otto milioni di persone.

Verso la propaganda

È chiaramente l’inizio dell’Irlanda moderna, soprattutto in termini di rinascita dalle ceneri di una cultura e di un sentimento di emancipazione che porterà alla parziale indipendenza dall’Inghilterra nel ventesimo secolo. Lo sanno bene gli storici, ed è tuttora infuocato, sebbene non come in passato, il dibattito sulle cause della «grande fame», e sul grado di colpevolezza dell’Inghilterra: un’Inghilterra presa nella cieca morsa dell’ortodossia protoliberista di un laissez faire economico che la rende certamente responsabile, se non altro per ignavia – per aver agito poco, in ritardo e male ai fini di arginare la situazione.

Eugenio Biagini, storico dell’Università di Cambridge, che firma l’interessante Storia dell’Irlanda dal 1845 a oggi (Il Mulino, pp. 242, euro 18,00), identifica nella «Grande carestia» proprio il momento focale del plasmarsi della nazione. Si emancipa con destrezza dalle posizioni estreme, allora identificate nella dicotomia nazionalisti-revisionisti, e ora, alla luce di una più pacata definizione di cause e contesti, inserite più nell’agone propagandistico che nella effettiva ricerca (chimerica) di una verità storica inconfutabile.

Inizia da qui, dalla grande carestia, e con equidistanza, una ragionata rassegna della nascita dell’Irlanda moderna. A volte è persino troppo equidistante, come nello scetticismo nei confronti di alcune visioni della storia scritte «dagli oppressi», o nel relegare Tim Pat Coogan, autore di importanti opere di divulgazione (ad esempio sui movimenti paramilitari), al ruolo di un «cultore della materia». La storia non può essere prerogativa degli storici, questo lo sappiamo bene, ma ad esserlo è il rigore della ricerca, e la necessaria tensione etica da cui quell’indagine non può prescindere. Il libro di Biagini riempie dunque un vuoto negli studi sull’Irlanda in Italia, e lo fa con il taglio non giornalistico dell’accademico, dello studioso che è alla ricerca di una verità che si situi al di là della rappresentazione (se questo è mai possibile).

La rassegna della storia irlandese intessuta da Biagini conferisce, ad esempio, la dovuta importanza al periodo tra le due guerre, un tempo in cui lo stato irlandese come lo conosciamo oggi veniva a forgiarsi e ad assumere i connotati che sono sotto gli occhi di tutti gli osservatori. Sono anni di assoluto rilievo, e spesso poco o insufficientemente sfiorati, anche perché affondano le radici in un biennio tabù, quello della guerra civile (1922-3) in cui fratelli uccisero fratelli, a migliaia, compagni fucilarono compagni, e l’architettura di quello stato si andò sempre più modellando, per necessità e per fretta, su quella dell’eterno nemico, l’Inghilterra. Sono anni in cui alla Chiesa cattolica veniva affidata la missione di fare da ossatura e scheletro al neonato stato libero, poi divenuto repubblica.

Assolutamente meritorio è anche il capitolo riguardante la grande stagnazione del secondo dopoguerra, anni in cui il repubblicanesimo istituzionale si rideclina inesorabilmente in senso non radicale e via via sempre più conservatore, sotto l’ombra lunga dell’ex rivoluzionario de Valera. È un tempo che si conclude, o forse si apre, con la cosiddetta Era Lemass, dal nome di un Taoiseach (presidente del consiglio) che ebbe il pallino di inseguire il progresso, di ristrutturare il paese, e di affrancarlo da forze che, a suo avviso, lo tenevano legato al passato. Appartengono a questi anni il miraggio dell’affluenza economica, della modernizzazione, che lambirà a lungo soltanto le grandi città, in Irlanda, e che sarà portata a compimento soltanto con i massicci aiuti europei nel decennio dei Novanta.

È in questi anni, se vogliamo, che vengono messe le basi, ideologiche ed economiche, per quella grande illusione che sarà la Celtic Tiger, un boom economico senza pari che ha, per un breve periodo, riproposto l’Irlanda come paese modello tra le economie liberiste. Il periodo, in cui il paese ha smarrito tante delle caratteristiche che erano proprie della sua natura, dalla famosa tradizione dell’ospitalità cantata cento anni prima da Joyce, fino alla cultura del pub tradizionale e della canzone popolare, sempre più minacciata dai venti del progresso, si è tristemente concluso sotto la scure della troika.

Un conto salatissimo

Particolare attenzione merita un capitolo che non poteva mancare, quello sulla «guerra e pace in Irlanda del Nord», che si distingue per la capacità di farci districare tra le sigle di partiti e partitini, di formazioni paramilitari dell’una e dell’altra fazione, con le loro continue scissioni e cambi di rotta, di associazioni per i diritti civili e altre tessere di un mosaico estremamente difficile da ricomporre per i non addetti ai lavori.

Il libro si conclude, sotto l’astro della effettiva modernizzazione del paese dovuta anche in gran parte alla sua secolarizzazione e laicizzazione, con un messaggio di speranza, che i più pessimisti tra di noi fanno fatica a condividere. È una speranza di un popolo che ne ha subite tante e che si è sempre rialzato – ma spesso a caro prezzo. È una speranza, infine, nella forza delle democrazie, liberali, il cui raggiungimento e compimento tanti irlandesi vedrebbero in termini di sogno spezzato, dell’ennesimo tradimento storico nei confronti di una utopia non realizzata, di un desiderio fatalmente inespresso.