Siamo in recessione. Nel primo semestre del 2014 il pil si è ridotto dello 0,3% e a fine anno il governo rischia di far lievitare il rapporto deficit/pil oltre il 3%.

Professore Riccardo Realfonzo, ordinario di economia all’università di Benevento, dopo appena 200 giorni, siamo alla caporetto economica di Renzi?
Il punto è che l’impianto complessivo del Documento di Economia e Finanza del ministro Padoan si è posto in continuità con il passato. E oggi risulta ancora più evidente che io e altri avevamo ragione nel chiedere una discontinuità, una azione espansiva che rilanciasse l’intervento pubblico in chiave anti-crisi, andando oltre i vincoli europei sul deficit. E dire che lo stesso Renzi aveva attaccato i vincoli europei a inizio anno, definendoli “superati” e sottolineando la necessità di proporre una svolta keynesiana. Poi però Padoan ci ha presentato la solita vecchia ricetta: rispetto dei vincoli europei e tagli alla spesa pubblica come strumento per risanare i conti. E così ci troviamo sempre di fronte agli stessi risultati cui assistiamo dallo scoppio della crisi del 2007. Le politiche che puntano a generare avanzi primari, cioè eccessi del prelievo fiscale sulla spesa pubblica, accentuano la recessione e la disoccupazione, finendo per peggiorare anche i conti dello Stato. È sempre più urgente cambiare le politiche economiche.

L’Ue nicchia sul rinvio del pareggio di bilancio al 2016, il governo nega la manovra correttiva in autunno. L’unica soluzione è una sassata da 30 miliardi in autunno. Chi sarà colpito?
Una manovra con nuovi tagli alla spesa sarebbe una iattura, approfondirebbe ancora la crisi. La spesa pubblica italiana, pur avendo al suo interno intollerabili privilegi e gravi sacche di spreco, è già inferiore ai valori medi europei. In particolare, la spesa sanitaria, per l’istruzione, per il sostegno ai redditi dei cittadini meno abbienti. Ulteriori tagli cancellerebbero diritti sociali e ridurrebbero ancora la domanda. E ciò metterebbe in ulteriore difficoltà le imprese, che già soffrono per l’assenza di politiche industriali. Non si torna a crescere continuando a tagliare.

Le «riforme» chieste dall’Europa servono a curare la recessione?
Le riforme utili riguardano la riorganizzazione della macchina statale e la conseguente riqualificazione della spesa pubblica. Se, invece, il riferimento fosse a ulteriori liberalizzazioni del mercato del lavoro, allora cadremmo in nuovi errori. Molti studi che esaminano gli effetti della riduzione del grado di protezione del lavoro sull’occupazione dimostrano che queste liberalizzazioni non riducono la disoccupazione e non aumentano la competitività delle imprese.

La Bce chiede all’Italia «aggiustamenti strutturali»…
Piuttosto che dare indicazioni ai governi, le autorità monetarie dovrebbero disporsi a operare come la Fed statunitense: soprattutto in recessione, sarebbe necessario che finanziassero direttamente la spesa pubblica. Purtroppo, in Europa prevale un modello di banca centrale di tipo tedesco e la Bce si guarda bene dal sostenere le politiche anticicliche dei governi.

Queste politiche accomodanti non creano devastanti bolle finanziarie?
È un rischio che può essere evitato con politiche monetarie coordinate con le politiche fiscali. Ma restiamo ai fatti: oggi gli Usa hanno un Pil che è circa 9 punti più alto rispetto allo scoppio della crisi del 2007, mentre nell’Eurozona siamo ancora due punti sotto.

Si può uscire dal paradigma dell’«austerità espansiva» per cui servono ancora misure fiscali restrittive per ottenere la crescita?
Certo, come stanno facendo gli USA e il Giappone. La difficoltà consiste nel fatto che i dogmi dell’austerità sono radicati nelle tecnocrazie europee e in particolare tra i banchieri centrali. E i popoli di Europa sino a oggi hanno finito col subire la volontà di soggetti e istituzioni in deficit di legittimazione democratica.

Lei è tra i promotori del referendum stop austerità. In che modo contribuirebbe a migliorare questa situazione così cupa?
Il successo del referendum potrebbe essere decisivo, anche per quei governi che vogliono davvero provare a cambiare. Sarebbe una forte e democratica spinta dal basso per lasciarci alle spalle le politiche di austerità in Italia e in Europa. È giunta l’ora che i popoli europei facciano sentire la loro voce, contro politiche che hanno prodotto nell’Eurozona, dal 2007 ad oggi, circa 8 milioni di disoccupati.