Come molti colleghi della sua generazione, Piero Angela non era laureato. Aveva abbandonato anzitempo gli studi da ingegnere per lavorare alla sede Rai di Torino nel 1951. E una volta entrato nei media di Stato ci vollero più di vent’anni, riempiti da lunghe corrispondenze all’estero e dalla conduzione del telegiornale al fianco di Andrea Barbato, prima che Angela iniziasse a occuparsi regolarmente di divulgazione scientifica. Al racconto della scienza Angela approdò quasi per caso, inviato dalla Rai negli Usa a coprire la corsa allo spazio delle missioni Apollo. «Avevo capito che quello che veramente mi interessava fare era di occuparmi non di dieci notizie al giorno, ma di una notizia per un anno», dirà dopo quell’esperienza.

EPPURE, LA MANCANZA di una formazione accademica e la tardiva frequentazione di scienziati e ingegneri non hanno impedito a Angela di diventare il maestro indiscusso della divulgazione scientifica in Italia e un fenomeno di assoluto rilievo internazionale, con pochi rivali quanto a successo e longevità. Al contrario, nella sua gavetta da giornalista di marciapiede si nasconde forse il segreto di un successo forse irripetibile. Essersi rivolto per molti anni a un pubblico generalista gli aveva insegnato un rispetto per l’ascoltatore e per la sua curiosità che spesso latita nell’informazione scientifica attuale.
Oggi la divulgazione è fatta perlopiù da ottimi professionisti, con una formazione mediamente solida e piuttosto specialistica, spesso condita da un’esperienza di ricerca in prima persona. Ma proprio per questo, il racconto della scienza appare spesso embedded, come quello degli inviati di guerra che si fanno portavoce di una parte sola.

LA MAGGIOR PARTE dell’informazione sulla scienza oggi si dedica a raccontare l’ultima sensazionale news da questo o quel campo di ricerca. Spesso facendosi aiutare dagli stessi ricercatori, ormai abilissimi nel promuovere i propri risultati a colpi di comunicati stampa non troppo diversi da quelli di aziende e politici. Con il risultato che ogni giorno la nostra attenzione è rapita da notizie scientifiche presuntamente rivoluzionarie, ma che dimentichiamo nel giro di poche ore e di cui facciamo fatica a valutare l’impatto reale nel lungo periodo.

PIERO ANGELA invece non si è mai prestato al ruolo di semplice megafono a disposizione degli scienziati. Nel suo stile garbatissimo ma capace di adattarsi ai linguaggi delle nuove tecnologie, il giornalista ha sempre scelto di porsi dalla parte di chi ascolta. Rivolgendo a scienziati e premi Nobel ospiti del suo studio gli interrogativi che il pubblico avrebbe voluto porre e non solo quelli che gli esperti avrebbero preferito ricevere per mettersi in luce. Una piccola rivoluzione copernicana compiuta in punta di piedi per la quale il pubblico, in particolare quello meno esperto, ha sempre riconosciuto ad Angela una gratitudine inconsueta per un anchorman. Finendo per tributare fiducia e credibilità al giornalista più che al luminare di turno.

L’APPREZZAMENTO unanime registrato in queste ore tra spettatori e colleghi si spiega anche con il rigore con cui Angela ha attraversato la Rai della lottizzazione partitocratica. Nel quale molto ha contato l’esempio di papà Carlo, dirigente della Resistenza piemontese per Giustizia e Libertà e onorato come «Giusto tra le Nazioni» da parte del popolo ebraico.
Recentemente, Angela si era anche esposto in iniziative politiche: nel 2016, al fianco di Giorgio Parisi, partecipò in prima persona alle assemblee del movimento «Salviamo la ricerca» che denunciava lo scarso sostegno all’università e alla ricerca pubblica del governo Renzi. Ma a farne un personaggio così amato è stata soprattutto la capacità di raccontare la scienza non come un elenco di verità, ma come una discussione aperta e mai interrotta. In cui le domande contano più delle risposte.