Nel sole estivo dell’ultimo giorno si aggirano smoking e vacanzieri, gli schermi nel Palais compongono la galleria Instagram del festival che è appena finito. Per valutare questa edizione 71 a distanza ravvicinata, ancora nella «bolla» della Croisette si fa fatica, rimangono una manciata di bei film, Kore-eda, Panahi, Honoré, Spike Lee, Hamaguchi, Serebrennikov… che già per un concorso in qualsiasi festival è un buon risultato. E poi, naturalmente, JL Godard, il suo Livre d’image scompone (le mani!) l’immaginario per reinventarne l’irriverenza e la resistenza.
Per gioco proviamo rintracciare qualche refrain nella canzone festivaliera.

VINTAGE
Non solo «film in costume» ricreano un’epoca a partire dalla forma delle loro immagini, quasi tornando anche al cinema del tempo. Il bianco e nero bon bon (o bon ton) di Pawel Pawlikowski in Cold War, un amore impossibile come il rapporto fra tradizioni popolari e jazz . Una visione musicale pretestuosa come il film.
Bianco e nero anche per Leto (L’estate), la musica è di nuovo al centro, siamo tra i protagonisti del rock e punk clandestini di Leningrado ai tempi della Russia sovietica. Kirill Serebrennikov, agli arresti domiciliari con l’accusa di presunta frode sa come infondere alle sue immagini il sentimento di una canzone rock. Sogni, desideri, lacerazioni: il racconto crudele di una generazione.

Blaxploitation omaggiata apertamente nel film di Spike Lee BlacKkKlansman, l’America degli anni Settanta di razzismo, Ku Klux Klan, battaglie african american, Black Panther, Vietnam, politica e intelligence corrotti che arriva al trumpismo di oggi nelle immagini di cronaca di Charlottesville. La storia ispirata all’esperienza di Ron Stallworth poliziotto african american a Colorado Spring che si arruola per cambiare il sistema «dall’interno». Una lunga marcia – nelle istituzioni – che lo porta a infilitrarsi nel Ku Klux Klan. Un vintage dell’urgenza.

Serie b poliziesca anni ’70 anche nei titoli di commedia delle sliding doors di Pierre Salvadori, presentata alla Quinzaine (ne parleremo).
L’inizio degli anni Novanta è la grana nelle immagini di Christophe Honoré per il suo Plaire, aimer et courir vite, narcisismo e «eterna fanciullezza» della generazione anni Cinquanta, incarnata dal protagonista che spesso confonde egotismo con invenzione del mondo. Honoré ne subisce il fascino illuminandone il cinismo. Un corpo a corpo doloroso.

1979 è l’anno di Un couteau dans le coeur di Yann Gonzalez, una regista regina del porno gay, Vanessa Paradis, prima dell’aids, dei siti, quando le sale per adulti erano un luogo di incontro e rimorchio. Chimere di sperma e di acqua fresca. E un misterioso omicida seriale che colpisce i suoi attori per arrivare a lei. La vendetta rabbiosa degli amori calpestati, delle vite distrutte dalle violenze del pregiudizio. Molto Argento, De Palma, Jack Smith coi suoi pic-nic queer e in genere il cinema e la cultura pop degli anni ’70 e ’80. Se i film sono scopate e sesso a lieto fine, il controcampo della vita conficca un «coltello nel cuore». Paradis biondo platino con trench in plastica nero lucido. Notturno, fantasmatico, gelidissimo nonostante tutto.

DRONE
Sembra essere lo «strumento obbligato» perché un film diventi contemporaneo. È il volo temporale fuori dal tempo di Lazzaro (Lazzaro felice), passaggio tra la campagna (di schiavitù) e la città (di emarginazione) per la classe contadina italiana. È il viaggio notturno nella memoria dei luoghi e degli amori perduti in Un grand voyage dans la nuit di Bi Gan. Quando il drone diventa sensualità.

MEZZANOTTE
Il concorso, si sa, è considerato il cuore di un festival, specialmente di un festival come Cannes. È il programma dove si dovrebbe misurare la temperatura del miglior grande cinema internazionale, quello che tutti i media seguono regolarmente. Ma un festival ben pensato, Cannes incluso, è anche fatto di quello che sta intorno a quel concorso, agli «altri film», il corollario dei fuori concorso, delle mezzanotti, delle cosiddette proiezioni speciali. A parte la scelta (opportunistica) di offrire il tappeto rosso a grosse produzioni hollywoodiane (che spesso esitano a competere) e, di conseguenza, alle star, come è stato quest’anno con Solo, Thierry Fremaux non è mai sembrato troppo attaccato a questo spazio -orari controproducenti, sale meno fortunate, alcuni film che sembravano messi lì quasi per esser nascosti… Raramente, però, il bilancio è stato così medio come in quest’edizione.

Inspiegabili, per esempio, le scelte per il film di mezzanotte. A partire da Fahrenheit 451, di Ramin Bahrani, un adattamento dal romanzo di Bradbury (sceneggiato in collaborazione con il regista iraniano Amir Naderi) e un film di due ore piene, molto scritto, che – nonostante la presenza super-hot di Michael B. Jordan, sarebbe stato più facile da apprezzare in una visione pomeridiana, piuttosto che nel cuore della notte di sabato. Non per dire che le ore piccole vanno solo riservate all’horror (Gilles Jacob aveva dedicato una mezzanotte memorabile a Ballroom – Gara di ballo, di Baz Luhrmann), ma un pesante thriller spionistico coreano di due ore e mezza come The Spy Gone North, di Yoon Jong-Bin (scelto solo in virtù del suo valore TG) a quell’ora è un mattone inutile.

Pallido e piuttosto dejà vu anche Arctic, di Joe Penna, con Mads Mikkelsen sparso/sperso nella neve. E, nonostante le anticipazioni su immagini e sound inediti, non ha aggiunto fermenti di eccitazione nemmeno la musica, con Whitney, un banale documentario di Kevin McDonald su Whitney Houston.
A fronte di scelte così distratte, poco curiose, quando non addirittura sbagliate, forse certi spazi della griglia potrebbero essere ripensati. Per valorizzare i film che meritano di essere visti, anche quando sono delle sfide «logistiche» (peccato la proiezione unica delle otto ore di Wang Bing), e eliminare l’aura di noia e disinteresse che caratterizza certi picks.