All’inizio di febbraio di quest’anno, un bersagliere di 29 anni si è suicidato nel bagno di una stazione della metropolitana di Roma, era stato in «missione di pace» in zone di combattimento e aveva appena iniziato il suo turno per l’operazione Strade sicure. Secondo uno studio della Confederazione autonoma della polizia di qualche mese fa, nel decennio 2003-2013 ci sarebbero stati 241 suicidi tra i membri delle Forze Armate italiane. Tra le cause principali lo stress post-traumatico che in particolare colpisce i soldati di ritorno dal «fronte».

Di possibili terapie per questo tipo di condizione si è parlato al V Congresso Mondiale per la Libertà di Ricerca Scientifica organizzato al Parlamento europeo dall’Associazione Luca Coscioni in una sessione dedicata alla lavoro medico-scientifica sulle sostanze psicotrope proibite. Tra gli intervenuti lo scopritore del Thc e Cbd Raphael Mechoulam, Carl Hart della Columbia University, Rick Doblin di Maps -Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies, Ben Sessa dell’Imperial College di Londra, Amanda Feilding della Beckley Foundation e Tomas Palenicek dell’istituto di salute mendale di Praga. Tanto per lo stress post-traumatico quanto per la depressione, i problemi di coppia, le dipendenze comportamentali o da sostanze legali o illecite, lo studio e la sperimentazione clinica delle piante e sostanze contenute nelle tabelle delle Convenzioni Onu sugli stupefacenti iniziano ad affermarsi come complemento, se non alternativa, a protocolli non sempre efficaci relativi alla salute e il benessere delle persone.

Se non possiamo parlare della nuova frontiera dell’antiproibizionismo (non tutti gli scienziati sono a favore della legalizzazione dell’Lsd, cannabis, Lsd, psilocibina e ibogaina con cui lavorano mentre l’Mdma e la ketamina sono consentite per terapie), possiamo parlare di ricercatori che quotidianamente si scontrano con limitazioni, divieti e ostacoli nella ricerca di cure per varie patologie che son frutto della proibizione sulle altre droghe.

Nei paesi che inviano militari in missioni internazionali, specie se in Iraq o Afghanistan, esistono enormi problemi di assistenza sanitaria dei «veterani». Le esperienze del combattimento lasciano nei soldati segni profondi spesso difficili anche solo da affrontare, figuriamoci da superare. Negli Usa, il paese col numero più alto di reduci, il 20 per cento dei militari rientrati manifesta sintomi di post-traumatic stress disorder. Dal 2007 alcuni ex-soldati americani si sono organizzati in Veterans For Medical Cannabis Access, Vmca, un’associazione che si batte perché l’accesso alla cannabis terapeutica divenga un diritto dei militari. In un dibattito organizzato da Forum Droghe e l’Associazione Luca Coscioni a marzo scorso durante la 61esima Commissione droghe dell’Onu, Michael Krawitz della Vmca ha fatto l’elenco delle leggi adottate per consentire l’uso della cannabis nella cura dello stress post-trauma dei militari senza che i ministri della Difesa o della Giustizia di Trump si opponessero.

Salvo qualche dibattito, tipo «Dalla nevrosi allo stress post-traumatico. Storie di uomini e soldati» tenutosi alla Camera nel giugno 2017, e un timido lavoro legislativo in seno alla Commissione d’inchiesta sull’uranio impoverito, in Italia tutto tace. Eppure è proprio il nostro ministero della Difesa che produce le infiorescenze che potrebbero essere utilizzate in sperimentazioni cliniche sui reduci dalle missioni internazionali che manifestano problemi. Perché non lanciare una sperimentazione pilota con la cannabis per la salute dei «nostri ragazzi» traumatizzati dalla guerra?