«Il nostro obiettivo è attaccare quando il nemico non se lo aspetta…un centro commerciale dove arrivano turisti da tutto il mondo, diplomatici…decisori locali…dove ci sono negozi ebrei e americani…quanto ai civili morti deve prima essere chiesto al Kenya perché ha bombardato civili somali innocenti nei campi profughi, a Gedo, Giuba…noi siamo gli unici a lottare contro i nemici della Somalia». Lo dice il portavoce militare degli Shabaab – Abu Abulaziz Muscab – ad Aljazeera dopo l’attentato. Il giornalista dell’emittente araba insiste: «Pensa che l’attacco farà ritirare al Kenya le sue truppe dalla Somalia?». Il portavoce se la cava con una non risposta e una minaccia (…non sta a noi rispondere. Spetta a loro ritirare i soldati o no. Se non si ritirano, questi attacchi diventeranno comuni in Kenya….) ma il punto sembra essere proprio lì: il Kenya.
Una vendetta? Si, forse proprio una vendetta dopo l’operazione Linda Nchi che inizia nell’ottobre del 2011 condotta dall’esercito somalo con l’aiuto proprio del Kenya. Lì comincia la parabola in discesa del movimento nato nel 2006 sulla scia delle Corti islamiche. Già indeboliti dall’intervento dell’Etiopia (tanto che l’Eritrea sarà accusata di sostenerli), per gli islamisti Linda Nchi è il colpo di grazia: nel maggio del 2012 truppe del governo somalo e soldati della missione Amisom riprendono la città di Afgoi, il villaggio di Afmadù, smantellano basi e campi di addestramento, tagliano le comunicazioni. Il primo ottobre cade Chisimaio, che gli Shabaab avevano eletto capitale nel 2008.
Se la lettura è quella della vendetta, allora la strage di Nairobi diventa anche un punto di debolezza che gli osservatori hanno già sottolineato visto che un centro commerciale è un obiettivo facile e simbolicamente debole, foriero più di biasimo che di consenso. Shabaab agisce fuori perché ormai in casa è terra bruciata? Possibile. Il gruppo nel 2012 si affilia ufficialmente ad Al Qaeda e anche questo potrebbe essere un segno di debolezza. Per altro la mossa suscita polemiche e defezioni in un movimento dove divergenze interne, ideologiche, religiose o militari, hanno già creato dissidi e fazioni che si sono affrontate a mano armata. In uno di questi scontri, nel 2013, viene ucciso anche un capo storico, Ibrahim al-Afghani, che tra il 2010 e il 2011 è stato «emiro», cioè capo assoluto del movimento anche se la nomina non era condivisa da tutti. Altra defezione eccellente è quella di Hassan Dahir Aweys, leader spirituale e cofondatore del gruppo. Lascia i suoi e si trasferisce con pochi fedelissimo ad Adado, in una zona controllata dal governo.
Le cose si fanno difficili: sul piano militare, interno e forse dei finanziamenti occulti, a parte quelli che arrivano dalla rete qaedista che punta a fare degli Shabaab una sua «sezione» sotto la guida dei qaedisti del Magreb islamico. Ci sta così anche l’alleanza con gli stragisti nigeriani di Boko Haram. Se la partita in Somalia è quasi chiusa, meglio giocare l’ultima carta con l’internazionale jihadista.