Immaginare la campagna e la città come due luoghi distinti e in antitesi non solo non corrisponde al vero, ma rischierebbe di sminuire il valore politico, sociale e paesaggistico del fare agricoltura in città. Non solo perché concetti quali «città e campagna» sono profondamente legati l’uno all’altro, ma perché si tratta di una dicotomia frutto di un processo storico e culturale. È questo il punto di partenza di Marco Trisciuoglio, professore ordinario al Dipertimento di Architettura e Design al Politecnico di Torino, curatore del libro dal titolo «Campagna in città. Oltre l’agricoltura urbana, al di là del paesaggio». Un testo promosso da Michela Pasquali dell’associazione Linaria che ha saputo promuovere, attraverso un concorso, il lavoro di giovani studiosi e ricercatori italiani nel campo dell’agricoltura urbana. Tre lavori dedicati al tema del paesaggio e dell’ambiente in relazione con lo spazio, fisico e sociale, della città.

Secondo Trisciuoglio città e campagna sono i due opposti su cui si costruisce l’idea di paesaggio che noi oggi conosciamo. Il fascino per la natura, coltivata nel senso comune, ha il suo fondamento nell’attrazione dell’uomo verso il mondo naturale. Un sentimento che deve però fare i conti con l’idea di città «moderna», solo in apparenza in antitesi alla campagna. Parliamo di un’idea di città che evolve nel tempo attraverso una serie di concetti quali la città diffusa, la smart city, passando per l’agricoltura urbana. Un concetto quest’ultimo, ci mette in guardia Trisciuoglio, «che rischia di diventare una vuota parola d’ordine e dalla semantica disordinata».

Mettendo l’accento sulla multidimensionalità dell’agricoltura urbana si potrà cogliere la portata sociale, politica ed economica del fenomeno. In questo contesto poca importanza avrà la necessità di distinguere fra un’agricoltura urbana di sussistenza, tipica dei paesi cosiddetti in via di sviluppo, oppure un’agricoltura urbana ludica, tipica invece dei paesi cosiddetti ricchi, se l’accento è posto sul bisogno del cittadino di affermarsi socialmente e politicamente. Fare l’orto in città esprime il bisogno di rivendicare il ruolo attivo del cittadino all’interno del contesto urbano. La volontà di interagire con il proprio ambiente e di farlo da protagonista, per affermare un’identità individuale e collettiva a partire dalla cura dello spazio comune.
Di «paesaggi commestibili» come contenitori di socialità parla il secondo dei tre lavori di ricerca, ad opera di Maria Greco. Sotto questa prospettiva, l’atto del coltivare in città diventa un «catalizzatore di socialità», ovvero una rete di rapporti che stimolano la solidarietà fra individui e fra comunità, poiché all’interno degli orti comunitari (community garden, nella versione anglofona) l’interazione sociale è inevitabile. Lo stare insieme, cosi come la condivisione di uno spazio, rafforza il senso d’identità di un gruppo e la cittadinanza attiva. L’orto urbano diventa luogo di incontro e di aggregazione intergenerazionale e interetnica.
Sul tema della convivenza fra culture diverse si concentra il terzo e ultimo lavoro, dal titolo «Dare terra al mondo», scritto a quattro mani da Aurélie Soazic Sabatier e Laura Varvello. Gli orti urbani si possono intendere come laboratori, agricolo-culturali, in grado di restituire al cibo la capacità di stimolare l’interazione fra le diverse comunità che abitano la città. Attraverso l’esempio del Parco Agricolo Sud di Milano, le due autrici ci portano alla scoperta delle interazioni sociali che si affermano dalla (ri)scoperta delle tradizioni culinarie e agricole della propria cultura d’appartenenza. Un processo che contribuisce a creare le basi per la convivenza di comunità differenti all’intero di un medesimo contesto urbano.