Da ieri, e cioè dal superamento di quattro anni e sei mesi di legislatura, i parlamentari di prima nomina hanno maturato il diritto alle pensione che potranno riscuotere al compimento del 65esimo anno di età. O anche prima, fino a 60 anni se saranno rieletti e resteranno in carica per altri cinque anni. Per i 5 Stelle, che hanno deciso di fare dei «vitalizi» (ma dal 2012 sono tali solo quelli degli ex parlamentari) un punto centrale della campagna elettorale, la giornata di ieri segna niente meno che «l’Armageddon dei partiti» (Di Maio). E così i deputati e senatori grillini hanno scritto ai presidenti di camera e senato Boldrini e Grasso chiedendo di poter rinunciare a quello che considerano un privilegio. E di vedersi applicare le stesse regole che valgono per tutti i cittadini, e cioè le regole della riforma Fornero che consente di andare in pensione a 67 e non a 65 (o 60) anni. Una richiesta, perché ovviamente si tratta di un diritto non rinunciabile individualmente e che peraltro riguarda principalmente i parlamentari del Movimento, tutti di prima nomina. Gli altri sono quasi eslcusivamente del Pd, in totale 438 parlamentari su 630 sono di prima nomina in questa legislatura.
I contributi accantonati da ogni parlamentare sono pari a circa 2.300 euro al mese, molto alti rispetto alla media dei cittadini perché molto alto è lo stipendio dei parlamentari; poco meno dei due terzi di questa somma mensile è a carico del «datore di lavoro», cioè la camera dei deputati o il senato della Repubblica. A conti fatti e in assenza di altri redditi, una sola legislatura dà diritto – ripetiamolo al compimento del 65esimo anno (dunque nel caso di Di Maio nel 2051) – a una pensione netta mensile intorno ai mille euro.
Mentre il Pd accusa gli avversari politici di strumentalizzazione – «i 5 Stelle non hanno rinunciato ai “vitalizi” si sono limitati a scrivere una letterina, dichiara il senatore Morgoni – il presidente Grasso ha detto che «si tratta di una questione che valuteremo, approfondiremo».