«Giugno 1941. La Germania nazista invade l’Unione Sovietica. L’Italia si unisce alle forze del Reich. A luglio i primi soldati partono per il fronte ucraino». Con questa didascalia ha inizio Il varco di Federico Ferrone e Michele Manzolini (già autori de Il treno va a Mosca e Merica, quest’ultimo con Francesco Ragazzi), presentato alla recente Mostra del Cinema di Venezia nella eterogenea sezione Sconfini (la stessa dove era inclusa Chiara Ferragni – Unposted, per intenderci). Documentario di montaggio, found footage, film di guerra, opera intimista, sicuramente un road movie, nel più macabro dei sensi, però.

ABBIAMO omesso, per ora, il seguito della didascalia d’esordio, perché è uno dei punti più discutibili di un progetto che è ambizioso per i testi scritti o rielaborati dai registi e da Wu Ming 2, per lo scorrere avvolgente di immagini d’archivio (a dire il vero po’ troppo al servizio delle parole, quasi si temesse che quelle stesse immagini non fossero sufficientemente evocative) e per la voce di Emidio Clementi (fondatore dei Massimo Volume, solo per citare una delle sue molteplici personalità) che si fa ottimo interprete del flusso di testimonianze di quei soldati che andarono a morire o che videro l’orrore in nome di una causa, che ammesso potesse esistere, non era certamente la loro.

LE VITE a cui questa storia si ispira sono quelle di Guido Balzani, Remo Canetta, Enrico Chierici, Adolfo Franzini, Nuto Revelli e Mario Rigoni Stern. È dalla loro somma di esperienze che ci possiamo immergere in un viaggio di sola andata verso l’inferno, come presagisce a un certo punto un contadino, quasi fosse una delle streghe del Macbeth. A questa voce narrante, tuttavia, non si può imputare l’ambizione e il delirio di onnipotenza del re che cedette all’idea di conquistare il trono col sangue. Ben altra natura possiede e lo scopriamo nel corso del racconto, nel quale è già presente più di un sintomo di stanchezza e spaesamento, perché quella in Unione Sovietica non è la sua prima guerra. Avanzando verso Mosca, il soldato comprende l’insensatezza del suo aver bruciato una vita in un campo che non era il suo, se non per un’origine affettiva e sentimentale. Quella è la terra natia della madre, che le ha donato la lingua russa. Non un destino, perché quello lo si costruisce di giorno in giorno.

«NEGLI STESSI luoghi si combatte oggi un’altra guerra», questa è la fine della didascalia. Ed è qui, e nelle poche immagini girate oggi in Ucraina, che si apre una voragine tra lo sforzo di riflessione continuo che la storia ci chiama a operare continuamente e la lezione, il promemoria che giunge dall’alto e non richiesto (che arrivi con le migliori o le peggiori intenzioni). Il varco in ogni presente apre a sentieri la cui meta è imprevedibile e purtroppo irreversibile, ma ancora capace di prestarsi all’immaginazione.