Tra le varie attività che il Covid ha interrotto o posticipato, c’è la campagna del governo ungherese contro i rom. Prima di marzo 2020 si stava già diffondendo una nuova ondata di notizie che avrebbero gradualmente segnato la svolta dalla propaganda anti-lgbtq al nuovo nemico interno e forse erano già pronti i manifesti. Cartelli come «è giusto dare soldi a chi non vuole lavorare?» dovevano affiancare e lentamente sostituire i famosi manifesti blu con scritte gialle che chiedono «Sei arrabbiato con Bruxelles» e un emoji (proprio quelle dei sistemi di messagistica on-line) a cui esce il fumo dal naso, «Vuoi che ritornino i tempi di Gyurcsány?» e la faccina che impreca, «Vuoi alzare il salario minimo?» con faccina sorridente. Non è uno scherzo, si tratta di consultazioni nazionali indette ufficialmente dal governo e pagate con soldi pubblici, in cui i cittadini sono chiamati a esprimersi su domande il più delle volte tautologiche o pretestuose utilizzate da Fidesz come campagna elettorale a costo zero e dimostrazione del consenso popolare.

Si consideri che l’Ungheria ha la più alta percentuale di popolazione di origine rom tra gli stati europei e una delle più antiche. Nel 2011 il governo di Budapest ha censito 315.583 cittadini di origine tzigana, corrispondenti al 3,18% della popolazione totale (circa 10 milioni). Tuttavia, non è raro imbattersi in percentuali molto più alte e su alcuni siti si parla addirittura del 6-8%, in constante crescita.

L’Ungheria invecchia, come tutti gli stati Occidentali, si fanno meno figli e l’unica comunità che prospera demograficamente è quella dei rom. Quindi, quale migliore bersaglio in un momento di difficoltà economica caratterizzato dall’indebolimento progressivo della piccola borghesia cittadina e l’innalzamento del costo della vita?

Poco importa se in realtà i rom d’Ungheria vivono ghettizzati e segregati. Le loro case nell’VIII distretto di Budapest, a Dioszegi utca, sono catapecchie fatiscenti mangiate dall’umidità e dalla puzza malsana delle fogne mai riparate, nel nord, a Ózd e a Salgotarjan (dove raggiungono 1/3 della popolazione cittadina) sono ai margini dell’abitato, separate da larghi viali da quelle degli “ungheresi” e spesso non servite dalla rete idrica ed elettrica. Nell’est, a Miskolc il governo locale ha attuato tra il 2014 e il 2015 una campagna di sfratti e demolizioni che ha devastato la zona delle “vie numerate” lasciando macerie e degrado e costringendo oltre 120 famiglie a emigrare con “compensazioni” che andavano dai 6.000 euro (per abbandonare la propria casa di proprietà) a zero. Circa cinquanta di queste famiglie hanno chiesto e ottenuto asilo in Canada e ora vivono oltreoceano. Altre, poche, sono rimaste, e la maggior parte si sono spostate nella zona rurale di Lyukoban utca, appena fuori città, lontano dagli occhi dell’amministrazione bianca.

Fin dalle scuole elementari è prassi comune separare i discenti di famiglia rom dagli “ungheresi” e sono molto poche le scuole che rifiutano questo modello etnico. Queste misure determinano indirettamente comportamenti razzisti anche in chi non avalla il sistema. Se le classi dei rom sono le peggiori nessuno avrà interesse a iscrivervi i propri figli. Giocoforza, la percentuale di abbandono scolastico è altissima così come la conseguente disoccupazione.

A ciò si aggiunga la trovata geniale del governo in carica di istituire i “lavoratori sociali”. Si possono vedere quasi dovunque in Ungheria, gruppi di quattro o cinque persone, spesso donne, che indossano il gilet catarifrangente e si occupano di tagliare l’erba nei parchi pubblici o di altri lavoretti simili. Il compenso arriva massimo a 200 euro al mese e ci sono anche dei requisiti per accedervi. I vantaggi per i politici sono molteplici: si risparmiano soldi per gli stipendi dei lavoratori qualificati, si utilizza l’iscrizione alle liste come leva per il voto di scambio (tant’è che molte comunità rom votano per Fidesz), si insinua negli ungheresi non rom l’idea che lo stato aiuti solo gli “altri” e si mantengono intere famiglie legate a piccoli gruppi di potere locali in cambio di un misero obolo.