L’arte come un corpo dissidente, meglio un dispositivo in grado di riconfigurare il mondo. Non solo quello utopico, ma anche – e soprattutto – quello reale, abitato dalla quotidianità dei lavoratori precari, dei migranti, degli intellettuali che legittimano, con il loro immaginario, una possibile devianza. È questo l’assunto principale del bel libro di Teresa Macrì Politics / Poetics (Postmediabooks, pp. 208, ill.39, euro 21).

È un saggio denso, che procede con un andamento concentrico, prendendo due «astri» dell’arte contemporanea come termini-perno della mappa concettuale che la storica e critica va a disegnare: l’artista belga che vive a Città del Messico Francis Alÿs e l’inglese Jeremy Deller (che ha rappresentato l’Inghilterra all’ultima Biennale di Venezia). Invece di allargarsi e «aprirsi», quella cartografia finisce per formare un network, una rete dove i due rappresentanti della «politica/poetica» funzionano come connettori di senso, soggetti sovversivi che inventano «un’altra dimensione dell’esistenza». Ecco allora Alÿs con la sua pratica (apparentemente innocua) della deambulazione. Cammina Francis e il suo corpo entra in rotta di collisione con le dinamiche perverse della produzioe capitalista, così come con i divieti e gli ostacoli delle frontiere stabilite per legge. Parte da Marx, incrocia De Certau e approda a pratiche situazioniste sula scia di Guattari e Deleuze, ridisegnando i confini delle città o di territori impervi, come può essere la zona ad alta tensione fra Palestina e Israele: il video The Green Line mostra l’artista che, camminando, sgocciola vernice verde, riperimetrando i confini e le traiettorie dell’occupazione. e poi c’è la frontiera di Tijuana dove ha messo in atto alcune azioni «fallimentari» in Rehearsal I, entrando in empatia con i sogni spezzati di molti messicani che non riescono a superare quella barriera geopolitica, pagando con la loro vita.

In When Faith Moves Mountains, Alÿs fa letteralmente spostare una duna di sabbia vicino Ventanilla (Perù): operano cinquecento volontari, mascherando in quella titanica impresa sostanzialmente due intenti: sul piano reale, l’inadeguatezza dell’idea produttiva e schiacciante delle grandi multinazionali e lo sfruttamento del lavoro seriale; su quello ideale, la possibilità – non remotissima – che la cultura possa mutare gli elementi dati, scompaginare gli assetti, riorganizzando la società, aprendo spiragli «comunitari». Macrì nota nel modo di agire di questo artista un’ascendenza degli happening di Fluxus («nonostante le sue camminate siano aliene da impostazioni e costitutivamente più fluide…sono una specie di mise en abîme infinita che traghetta l’opera in continue correlazioni»), ma rileva anche – grazie all’uso continuativo che l’artista fa del disegno, un palinsesto instabile dell’azione stessa – un’attitudine scientifica all’ensayo, all’esperimento ripetuto, con la conseguente ricerca di un «sistema». Come quando Francis Alÿs compie studi sulla caccia dei nandù e ripercorre i loro faticosi spostamenti in Patagonia per comprenderne il significato simbolico, o utilizza il «paradosso» trascinando un blocco di ghiaccio per le strade di Città del Messico, fatica inutile dato il suo naturale scioglimento, eppure «antropologicamente» dirimente dato che intercetta le pratiche degli ambulanti.

Con l’idea di identità sociale, di community a costituire un prezioso collante e con la mediazione di un intellettuale come Stuart Hall, Alÿs – dopo i suoi vagabondaggi – finisce per ricollegarsi a Jeremy Deller. Qui, il nume tutelare non è più Marx, ma Hannah Arendt, soprattutto la rilevanza che la filosofa attribuiva all’«essere insieme», insistendo sulla politica come spazio della relazione.

Deller appare ossessionato dalla restituzione della storia della Gran Bretagna e, in questa prospettiva, sceglie due eventi di massa che l’avrebbero segnata indelebilmente: i rave degli anni Ottanta, risposta eversiva alla morsa thatcheriana, e lo sciopero dei minatori finito nella repressione. L’acid house music contro la lady di ferro e l’alienazione che provocava nella classe operaia. Deller, scive Macrì, «traspone e rende politico lo spazio estetico su cui interviene. Ciò che maggiornmente lo avvince è l’elemento di désordre che è contenuto nei movimenti di massa legati alla protesta…». Così, propone un «re-enactment», cioè rimette in scena la battaglia di Orgreave che avvenne il 18 giugno 1984 e che determinò la sconfitta delle istanze rivendicative dei minatori. Nel film che realizza, ci sono anche alcuni dei combattenti di allora (ben duecento reduci) che, in quella ricostruzione ad uso e consumo dell’arte, rielaborano collettivamente un trauma, incarnando quell’immagine-azione proclamata da Gilles Deleuze quale unica alternativa all’esistente.

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A Good Day for Cyclists by Sarah Tynan in Jeremy Deller’s British pavilion at Venice Biennale