Uno Juncker più pimpante che mai ha tenuto banco nell’aula di Strasburgo con un iper ottimistico discorso sullo stato dell’Unione. Ha voluto andare ben al di là delle valutazioni contenute nell’ultimo Bollettino della Bce. Nel quale – argomenti ripresi da Draghi nella riunione agostana dei banchieri centrali a Jackson Hole – vi è tutt’altra prudenza nel descrivere la situazione economica. È vero che il quadro mondiale del secondo trimestre 2017 riscontra una crescita sostenuta. Ma, avvertono gli studiosi della banca centrale, se «l’attuale congiuntura positiva potrebbe dare luogo a una ripresa economica più vigorosa… dall’altro persistono rischi al ribasso». In altre parole: dipende. Da che dipende? Dalla qualità della politica economica. Il diluvio di liquidità non è in grado di rimettere in moto il meccanismo dell’economia reale. Al massimo evita, o allontana, nuovi tonfi. E non si sa per quanto tempo essendo ignoto cosa accadrà dopo l’inevitabile, per quanto procrastinabile, fine del Quantitative easing. Ma l’esaltazione di Juncker non è di maniera, anzi perfettamente funzionale a portare avanti progetti di nuova governance maturati in questi anni di crisi. La ripresa economica aiuterebbe il rilancio politico della Ue, dice Juncker. Ma non è vero, se lo si intende nel senso democratico del termine. L’idea che dalla Europa economica si passi a quella politica, come sosteneva il funzionalismo di David Mitrany, si è realizzato solo in un quadro a-democratico sempre più lontano dai cittadini.

Quanto ha detto ieri Juncker non è che la prosecuzione del progetto cominciato con il cd. documento dei cinque presidenti del 2015 e proseguito con il più recente Reflection Paper di fine maggio di quest’anno della stessa Commissione europea. Juncker ha quindi abbracciato la proposta tedesca di trasformare il Meccanismo europeo di stabilità in un Fondo monetario europeo, dotato di poteri più invasivi e condizionanti rispetto alle economie dei singoli paesi. Non ha seguito proprio alla lettera i diktat di Berlino, non attribuendo direttamente a questo organismo compiti di sorveglianza dei bilanci nazionali, cosa che sarebbe ancor più gradita ai tedeschi perché limiterebbe la discrezionalità della Commissione in materia. Ma ha avanzato il suo piatto forte, condiviso peraltro dal rinnovato asse franco-tedesco. Cioè la trasformazione del commissario agli affari monetari in un Ministro delle finanze della zona euro, esplicitamente chiamato a vigilare sui bilanci nazionali, a promuovere le (contro)riforme strutturali, a presiedere l’Eurogruppo (ovvero il coordinamento dei ministri della economia e delle finanze degli stati membri dell’eurozona), dotato di una propria linea di bilancio. La condivisione dei rischi tra i paesi membri della Ue sarebbe così scongiurata in partenza, con grande soddisfazione della Germania, poiché esisterebbe un’autorità monocratica preposta ad evitarla in partenza.
Il che sarebbe un nuovo giro di vite nella costruzione tecnocratica del sistema di governance, poiché avverrebbe entro un quadro istituzionale sempre più marcatamente a-democratico e oligarchico, senza alcun ruolo di indirizzo e di controllo da parte del Parlamento europeo, unico organo elettivo. E’ esattamente il quadro prospettato e sollecitato dall’economista indiano Parag Khanna nel suo ultimo libro che invita i maggiori paesi del mondo e l’Unione europea ad abbandonare definitivamente ogni parvenza democratica, seppur posticcia, e ad abbracciare la “tecnocrazia diretta” come forma di governo e di organizzazione della società, codificando un enorme passo all’indietro da democrazia a oligarchia. Coerentemente Jean-Claude Juncker ha reclamato una maggiore rapidità nelle decisioni della Ue, quindi l’introduzione del voto a maggioranza e non più all’unanimità, su questioni assai rilevanti come quelle fiscali, ma estendibili potenzialmente ad altri settori. Ben sapendo che non è detto che la sostituzione del metodo dell’unanimità con quello della maggioranza favorisca sempre la conservazione dell’esistente, si è subito affrettato a dire che tutto ciò non riguarderebbe e non richiederebbe la modifica dei Trattati.

Prima di concludere il suo discorso – con parole che ci ricordano altri tempi foschi: «Ora che splende il sole…lasciamo gli ormeggi e avanti col vento nelle vele» – , e di raccogliere il plauso dei popolari, dei socialisti e dei liberali, Juncker non ha mancato di ringraziare l’Italia ( ed è subito giunto un twitter entusiasta di Gentiloni) per avere salvato l’onore dell’Europa sui migranti. Il nostro bollino della vergogna non poteva mancare.