Non passa giorno ad Ankara senza che il governo non lanci minacce a destra e a manca. Le danze le apre ovviamente il presidente Erdogan che ieri ha avvertito le unità di difesa curde e le Forze democratiche siriane: allargherà (ancora) la zona di sicurezza al confine turco-siriano se proseguiranno gli attacchi ai suoi soldati e alle milizie islamiste alleate.

Non gli basta la fascia di territorio (120 km per 32) che la Russia gli ha accordato violando la sovranità siriana e il principio di autodeterminazione dei popoli. Né l’effettivo ritiro curdo. I residenti riportano di saccheggi e rapimenti da parte delle milizie islamiste, in perfetto stile Afrin.

E ieri l’agenzia di Stato siriana Sana riportava di duri scontri tra esercito governativo e forze turche a Ras al-Ain e Tel Temer, a dimostrazione che la contraddizione accesa dal patto turco-russo è lontana dal rientrare.

Nelle stesse ore il ministro degli Esteri turco Cavusoglu attaccava le due mozioni della Camera Usa, passate quasi all’unanimità: la prima (403 sì e 16 no) chiede l’introduzione di sanzioni economiche alla Turchia, la seconda (405-11) riconosce il genocidio armeno.

Obiettivo del primo voto sono lo stop all’export di armi ad Ankara, il congelamento degli asset e il divieto di ingresso per leader politici e militari turchi «responsabili del bagno di sangue in Siria», e un’inchiesta sulle finanze personali di Erdogan e multe alla “sua” banca, Halkbank.

«Una decisione vergognosa», ha detto Cavusoglu mentre l’ambasciatore Usa veniva convocato dal governo turco. Fonti governative hanno riportato, a Middle East Eye, che durante l’incontro è stato chiesto a Washington di opporsi ufficialmente alle due mozioni.

A dar man forte alla Camera è il segretario del Tesoro Usa Mnuchin: la Casa bianca tiene la Turchia nella lista dei paesi target di sanzioni, dovessero servire. Ora la palla passa al Senato: se lì la mozione passerà con maggioranza dei due terzi, il presidente Trump non potrà opporre il veto.

Intanto a Ginevra si apriva, sotto gli auspici Onu, il tavolo costituzionale siriano voluto da Mosca: 150 rappresentanti, 50 per Damasco, 50 per le opposizioni e 50 per la società civile. Tra loro sette curdi, ma non dell’amministrazione autonoma del Rojava che ha espresso la sua contrarietà in una nota: «È giusto escludere i curdi che hanno combattuto il terrorismo?».