La Camera ha approvato ieri con 221 voti (22 contrari, 63 astenuti) il disegno di legge delega al governo contro la povertà e per il riordino delle prestazioni e servizi sociali. Il provvedimento, collegato alla legge di stabilità 2016, stanzia 600 milioni di euro per l’anno in corso, e 1 miliardo per il 2017 e il 2018: meno di 60 centesimi al giorno a disposizione per 4 milioni e 598 mila «poveri assoluti» e per 8 milioni e 307 mila «poveri relativi». Il testo passa ora al Senato con una dotazione pari a un decimo del fondo destinato al bonus Irpef degli 80 euro, riservato ai dipendenti tra 8 e 26 mila euro di reddito. La coincidenza tra l’approvazione della delega e la pubblicazione dei dati Istat sulla povertà rende l’idea dell’inadeguatezza delle risorse – oltre che dello strumento specifico del «reddito di inserimento sociale» approvato a Montecitorio. L’intento del governo rendere «strutturale» una misura che dovrebbe interessare un milione di persone.

E non sarà semplice accedere a questo modesto sussidio di povertà, ispirato all’idea di un welfare residuale, frammentato e caritatevole. La misura sarà concessa a seguito della «prova dei mezzi, effettuata attraverso l’indicatore della situazione economica equivalente (Isee)» e alla partecipazione a un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa. Il sussidio sarà determinato in base alla condizione economica e alla «durata minima della residenza sul territorio nazionale nel rispetto dell’ordinamento dell’Unione europea».

La discussione in aula è stata a dir poco furiosa. Il tutto, come da tempo scriviamo su Il manifesto, è stato generato dalla tragedia degli equivoci sul concetto di «reddito». Ieri Pd e Cinque Stelle si sono rinfacciati ancora una volta parole che hanno un significato diverso. Per il partito di maggioranza, il modestissimo strumento approvato è sia un sussidio di ultima istanza che un reddito di inserimento lavorativo. La somma per il Nazareno fa un «reddito minimo». Invece di garantire l’accesso universale a una somma molto contenuta, si intende obbligare i poveri ad accettare un’offerta di lavoro e quindi una serie di premialità e penalità. Con un sistema di politiche attive inesistenti, il destino di questa misura è già segnato.

Dal canto loro i Cinque Stelle hanno ragione a denunciare l’«ipocrisia» e l’«assistenzialismo» di questa «social card» mascherata. Di Maio e Di Battista, e il sacro Blog, ieri hanno picchiato duro. Ma anche loro incorrono in disavventure lessicali che si sono prestate agli attacchi virulenti della maggioranza, volti a negare la sostenibilità del loro «reddito di cittadinanza». Tale reddito, in realtà, è un «reddito minimo» pari a 740 euro mensili (il massimo previsto da una direttiva europea sull’argomento) strettamente legato al reinserimento lavorativo. Tutto l’opposto dunque del «reddito di cittadinanza», come rilevato in aula dalla relatrice Pd Piazzoni.

Se ha dunque senso criticare l’«elemosina del Pd», insistere sull’improbabile equivalenza con un’erogazione universalistica di un reddito di base significa prestarsi alle strumentalizzazione e neutralizzare politicamente una misura sostenibile, come del resto accertato dalla commissione Bilancio della Camera. Cosa regolarmente accaduta anche ieri: la Camera ha bocciato l’emendamento M5S sul «reddito di cittadinanza» per mancanza di copertura finanziaria, mentre ha approvato il «reddito di inclusione sociale» del Pd. Il primo costa 14 miliardi di euro e può essere finanziato con i soldi del bonus 80 euro, il taglio delle spese militari e una riforma fiscale progressiva e una degli ammortizzatori sociali. Il secondo raccoglie le briciole e conferma il riduzionismo con il quale le classi dominanti italiane affrontano il problema della povertà, della precarietà e della disoccupazione. «Due miliardi e spiccioli in tre anni contro la povertà assoluta è come svuotare il mare con un cucchiaino» afferma Arturo Scotto (Sinistra Italiana).

Nicola Fratoianni (Sinistra Italiana) ha ricordato che nel gennaio 2014 Pd, Sel e M5S avevano votato una mozione parlamentare che impegnava il governo Renzi a istituire un vero «reddito minimo garantito», coerentemente con le proposte di legge già presentate. Da allora Renzi ha deciso, a modo suo, di speculare politicamente sul reddito, mentre non ha giovato l’ostinazione dei Cinque Stelle a presentare la loro proposta per quello che non è. Il risultato è che ora si continuerà a parlare di un «reddito minimo» che in realtà non esiste.