La Calisto di Francesco Cavalli in scena in questi giorni al Teatro alla Scala è una prima assoluta, per diverse ragioni. Primo, perché nei 370 anni trascorsi dal suo debutto, l’opera a Milano non è mai stata rappresentata. Secondo, perché questo recupero aggiunge un tassello alla presenza assai discontinua nel cartellone scaligero del repertorio barocco, che negli ultimi vent’anni annovera solo una manciata di titoli di Monteverdi e Händel. Terzo, perché questo capolavoro del teatro musicale seicentesco e pietra angolare della storia dell’opera, o meglio della maturazione del linguaggio dell’opera come lo conosciamo oggi, approda a Milano in una produzione mai vista.

IL LIBRETTO di Giovanni Faustini, che trae ispirazione dalle Metamorfosi di Ovidio, racconta come Giove, sceso con Mercurio sulla Terra devastata dal recente passaggio del carro solare guidato da Fetonte, concupisca la ninfa Calisto, seguace di Diana, e la possieda assumendo l’aspetto della Dea, che invece desidera ricambiata il pastorello Endimione. Furiosa per l’ennesimo tradimento del marito, Giunone trasforma Calisto in orsa, ma Giove, mosso a pietà, la chiama in cielo in forma di costellazione (Orsa Maggiore). Si tratta di un esempio compiuto di opera eroicomica, in cui dei e uomini, emblemi austeri di nobiltà e sguaiati cliché popolari, pathos e risate, versi aulici e battute scurrili si mescolano in intrecci la cui complessità ricorda quella delle commedie degli equivoci del recentissimo Shakespeare (Sogno di una notte di mezza estate, La dodicesima notte ecc.).
Dal punto di vista musicale, occorre ricordare che la scrittura essenziale di Cavalli, che si limitava alla linea di basso e alle parti vocali lasciando il resto all’improvvisazione degli strumentisti, obbliga i direttori a corposi completamenti, contribuendo, prima che all’esecuzione, all’edizione della partitura. La Scala ha ingaggiato Christophe Rousset, interprete di riferimento de La Calisto, che depura l’esecuzione di tutti gli arbitrii che nelle riprese contemporanee sono stati giustificati con la licenziosità del testo, come la parte della ninfomane Linfea affidata a un tenore invece che a un soprano o quella di Giove metamorfosato in Diana a un baritono che canta in falsetto invece che a un soprano. Rousset si concentra sulla restituzione di un linguaggio musicale che cerca di arricchire e stabilizzare il suo lessico e la sua sintassi distinguendo recitativi e arie e allo stesso tempo collegandoli con gli ariosi, alternando scrittura vocale e scrittura strumentale e allo stesso tempo mettendole in sinergia perché si potenzino a vicenda. Il risultato, all’ascolto, è di una freschezza e di una modernità che colpiscono.

LA MESSA IN SCENA, con la regia di David McVicar, le scene di Charles Edwards, i costumi di Doey Lüthi, le luci di Adam Silverman, le coreografie di Jo Meredith e i video di Rob Vale, colloca la vicenda in un planetario seicentesco in cui il casto Endiminione guarda la luna, emblema dell’amata Diana, usando un telescopio, macchina inventata da Galileo pochi anni prima, accostata alla machina barocca con cui Giove discende/ascende dalla scena. Il tema della libera e laica esplorazione della natura è rivolto dunque all’infinità del cosmo ma anche alla complessità dell’animo umano, che qui, tra travestimenti, scambi di identità di genere, esperienze omoerotiche, è squadernato con una partecipazione in cui la compassione si mescola al sorriso, anche grazie a un’ottima compagnia di cantanti-attori, tra cui Christophe Dumaux, Chen Reiss, Markus Werba, Luca Tittoto e Olga Bezsmertna.