Nel febbraio del 2017 un autentico tesoro è approdato alla Biblioteca nazionale argentina: i diciassettemila volumi riuniti da Adolfo Bioy Casares e Silvina Ocampo durante la loro vita in comune, e abbandonati da anni in un deposito. Un «fondo» prezioso, un giardino delle delizie per i ricercatori che ne hanno intrapreso l’esplorazione e che, oltre a libri con dediche illustri o con i commenti a margine di Bioy, Ocampo e Borges, include lettere, disegni, bozze, appunti, fotografie, e, chissà, qualche sorpresa su uno dei più bizzarri sodalizi coniugali e letterari del XX secolo, chiuso in un bozzolo di leggende così contrastanti che neppure l’attenta indagine di Mariana Enriquez, ottima scrittrice argentina e autrice di La hermana menor. Un retrato de Silvina Ocampo (Udp, 2014), in molti casi è riuscita a separare la fabula dalla realtà.

Se Bioy ci ha lasciato memorie minuziose che, tuttavia, non indugiano troppo sulla vita di coppia, Silvina non ha mai tenuto un diario, anche se nei racconti – cui il passare del tempo sembra aggiungere nuovi significati, rendendoli ancora più inquietanti – si possono individuare tracce della sua vita in brevi storie che svelano il mostruoso e l’assurdo della quotidiana («Perché inventare? La realta è più strana», si legge all’inizio della sua splendida autobiografia d’infanzia in versi, Invenciones del recuerdo, pubblicata postuma).

TRA LE RETICENZE dei protagonisti e le mille voci contrastanti, viene da pensare che, come scrisse l’amico Pichon Rivière, la loro unione evoca «certi matrimoni di epoca vittoriana, così pieni di amore e di complessa dipendenza, quanto di storie d’infedeltà».
I due, indubbiamente, non avrebbero potuto essere più diversi: lui, Adolfo, nato nel 1914 e destinato a un futuro di avvocato e proprietario terriero, era uno degli uomini più belli ed eleganti di Buenos Aires («Guapisimo, neppure un attore del cinema lo superava in bellezza», ricorda la governante Jovita Iglesias in Los Bioy, vivaci memorie ancillari raccolte da Silvia Renée Arias e pubblicate nel 2002), tennista indefesso, cinefilo a oltranza, dongiovanni seriale; lei, la timida e schiva Silvina, pittrice dilettante nata nel 1903 in un aristocratico clan immensamente ricco, veniva considerata la bruttina di casa Ocampo, anche se nelle foto giovanili colpiscono il fascino di un volto irregolare, i grandi occhi celesti, le magnifiche gambe (mentre in quelle della maturità tende a coprirsi il viso, a nascondersi e negarsi).

Entrambi, tuttavia, avevano in comune i privilegi del censo e del ceto, un’educazione cosmopolita e un’infanzia solitaria trascorsa tra bambinaie e servitù: e se quella di Adolfito era la solitudine del figlio unico, trascurato da una madre mondanissima, Silvina era l’ultima di sei sorelle assai più grandi, «l’eccetera della famiglia», e forse per questo cercava compagnia e affetto nelle stanze della servitù, dove avvenne la sua precoce scoperta del sesso.

Tutti e due condividevano, inoltre, l’indifferenza non solo per la mondanità, ma anche per le convenzioni, tanto che per anni convissero «scandalosamente» nella tenuta dei Bioy, prima di sposarsi nel 1940 alla presenza dei soli testimoni («Sposatami con Adolfito. Baci. Silvina», annunciava il telegramma inviato alle sorelle). Ed entrambi erano, ognuno a suo modo, seduttori irresistibili: immediata e plateale la seduzione di Bioy, più sottile, ma infallibile quella di Silvina (il cui potere era tale che Alejandra Pizarnik si innamorò perdutamente, non ricambiata, della scrittrice ormai ultrasettantenne).

Tra diversità e punti di contatto, ad avvicinare davvero Adolfito e Silvina fu però un’attrazione immediata e intensa, un colpo di fulmine avvenuto nel 1932, e candidamente narrato da Bioy nel documentario Las dipendencias. Il loro legame fu da subito oggetto di curiosità e pettegolezzi, come quello, velenosissimo, secondo il quale Adolfo si era sposato per proteggere l’onore della madre, legata a Silvina da una relazione saffica. Voce sempre smentita da chiunque conoscesse bene la coppia, ma che conteneva un fondo di verità, ossia l’allusione alla bisessualità di Silvina, che, come tutto quanto la riguardava, era celata in un silenzio e una solitudine quasi da reclusa («Non sono socievole, sono intima», diceva di sé).

IL DONGIOVANNISMO patologico di Bioy, che collezionò un numero impressionante di amanti e tradì Silvina sin dall’inizio della loro relazione, era motivo di commenti a volte inorriditi, come quelli di María Esther Vázquez e della fedele Jovita, che la vedevano vittima della più atroce gelosia, e a volte più sfumati, perché anche Silvina coltivava meno frequenti e segretissime relazioni extraconiugali. E se la paura dell’abbandono la induceva a sopportare le infedeltà del marito – che, tuttavia, non passò una sola notte fuori di casa, rientrando ogni sera con puntualità, a conclusione di una routine fatta di tennis, amanti e pomeriggi al cinema -, fu il desiderio di lui d’essere finalmente padre che la spinse ad accettare l’adozione della figlia naturale di Bioy, Marta, nata da una relazione fuggevole, e a crescerla come propria.

UN’UNIONE COMPLICATA e piena di segreti, insomma, in cui a segnare il ritmo non erano solo le esigenze di Adolfo, ma anche l’estrema eccentricità, le manie, i capricci e le paure di Silvina, e che non sarebbe durata senza un’immensa complicità, la comune passione letteraria e la consapevolezza del valore intellettuale dell’altro.
Si sa che fu Silvina a spingere definitivamente Bioy verso la letteratura quando, dopo una serie di tentativi falliti, era sul punto di darsi per vinto; e si sa che fu Bioy, dopo aver letto le poesie della sua compagna, a convincerla a dedicarsi alla scrittura. Insieme a Borges, compilarono la «Antologia della letteratura fantastica» e la Antología poética argentina, e scrissero a quattro mani un anomalo e raffinato poliziesco, Chi ama, odia. E per tutta la vita non smisero mai di leggersi a vicenda, accettando o respingendo le rispettive osservazioni, ma senza pubblicare una riga prima di averla sottoposta all’altro.

Intorno a loro fluttuava una minuscola galassia di scrittori e critici come Manuel Puig, Juan Rodolfo Wilcock (l’anima gemella di Silvina), Enrique Pezzoni, Alejandra Pizarnik, Edgardo Kozarinsky, che chiacchieravano con la padrona di casa mentre Adolfito si chiudeva in uno studiolo insieme a Borges, per anni stella fissa delle parche e informali cene di famiglia. Complici, amici e collaboratori sin da quando si erano conosciuti, nel dicembre del ’31 o nel gennaio del ’32, a Villa Ocampo (sontuosa residenza di Victoria, sorella maggiore di Silvina e fondatrice della celebre rivista Sur), i due facevano nuovi progetti, scrivevano racconti polizieschi, discutevano o malignavano secondo lo stile perfidamente epigrammatico di Borges.

DAL SALONE, Silvina sentiva le loro risate e chiedeva: «Che avranno da ridere, quegli idioti?», ai pochi amici che la circondavano. Si sentiva esclusa, ancora una volta trascurata? Forse no: non condivideva né l’umorismo né molte delle opinioni di Borges e, nonostante la distratta adesione all’orientamento politico della propria classe sociale, nei suoi racconti affiorano un universo femminile e infantile realmente sovversivo, una critica tagliente alle convenzioni dell’epoca e il rifiuto delle norme letterarie vigenti, ma anche di quelle che Borges voleva imporre, e che per un certo periodo avevano influito sul giovane Bioy.

In un certo senso, nonostante a volte le dispensasse sperticate lodi a doppio taglio, per il misogino Borges Silvina era «troppo»: troppo diversa, troppo originale, troppo indipendente, troppo audace, qualità che hanno contribuito alla nascita di un materiale critico sempre più vasto intorno all’opera di quella che si può ormai definire la più importante scrittrice argentina del ’900. E Silvina era «troppo», o forse «troppo poco» per la dispotica, straripante Victoria, che non smise mai di disapprovare lo stile di vita e il modo di scrivere della sorella, di detestare il cognato, di pretendere una più decisa adesione al gruppo di Sur, che pure los Bioy avevano contribuito a fondare.
Ma per Adolfito, eterno enfant gâté, Silvina, enfant terrible fino all’ultimo dei suoi giorni, non era troppo né troppo poco: in qualche modo, l’aveva accettata com’era, facendole posto in seno al proprio amabile egoismo, e mai, mai l’avrebbe lasciata. Finché, nel 1994, fu lei a lasciarlo, con la mente confusa e i pensieri quasi cancellati dall’alzheimer.