La Calabria che va al voto ad ottobre è una regione smarrita, dove a vecchie ferite si sono aggiunte quelle nuove della pandemia. Anzi, la pandemia ha reso ancora più purulenti le ferite del passato.

La sanità? Parlare di disastro è poco. Dieci anni di commissariamento non hanno né azzerato i debiti né migliorato i servizi. Ad essere tagliati sono stati soltanto il personale, i posti letto, i reparti e gli ospedali. Le «case della salute» sono solo sulla carta, mentre i centri hub e spoke sono diventati il collo di bottiglia di un sistema sempre sull’orlo di scoppiare.

E’ cresciuta la sanità privata però, che non gestisce emergenze e non risponde alle esigenze dei territori. Un grande travaso di risorse dal pubblico al privato, che, come si legge nel Piano di rientro dal debito, è tra le cause principali del dissesto dei conti. E i conti contano, purtroppo, stante l’aziendalizzazione del sistema.

Di fronte ad un bisogno di salute, la prima domanda che ci si pone è «quanto ci costa?». Senza tener conto che se un paziente calabrese si rivolge a strutture extraregionali sarà sempre la Regione Calabria a dover aprire i cordoni della borsa.

Nel 2019 sono stati 53 mila i calabresi ricoverati in altre regioni, portando un conto di 220 milioni di euro (310,9 milioni nel 2020, contro i 20 della «mobilità attiva»). Lo chiamano «indice di fuga» dalla sanità calabrese. Sarebbe meglio parlare di «regionalismo differenziato» o «asimmetrico», che è già realtà.

Sono i dati su povertà, disoccupazione ed esclusione sociale, nondimeno, che danno il senso del dramma che vive la regione. Su una popolazione di un milione e novecentomila abitanti ben duecentomila persone sono coinvolte nella platea dei percettori del Reddito di cittadinanza (60 mila famiglie). Un dato che non può sorprendere.

Dati recenti dell’Istat dicono che in Calabria, prima della pandemia, il 30,6% delle famiglie e il 34,6% degli individui era in condizioni di povertà relativa (in Italia, l’11 e il 15%). Significa che un calabrese su tre non fruisce di tutti i beni, i servizi e le opportunità disponibili nel Paese. Sopravvive, non vive come potrebbe vivere, tenendo conto degli standard di vita prevalenti nella comunità nazionale.

E il lavoro? Eurostat certifica un tasso di disoccupazione al 20,1% (dato 2020), con quello giovanile che va oltre il 50%. Ottava percentuale peggiore nell’Unione. Più vicini alla Tunisia che all’Europa.

E si continua ad emigrare. Un esodo silenzioso, che sta spopolando paesi e territori. Il caso delle aree interne. Su 409 comuni, ben 323 sono classificati come comuni periferici ed ultraperiferici (il 5.7% del totale nazionale). Paesi, piccoli e medi, che nell’arco di un trentennio hanno perso oltre il 20% dei propri abitanti. Paesi anziani, che perdono servizi e scuole, commercio, braccia e competenze, saperi e intelligenze.

Cosenza, foto Giacomo Greco

 

Una spirale viziosa: la perdita di abitanti crea desertificazione economica, che, a sua volta, è causa di ulteriori perdite di popolazione. Non è solo una questione di risorse insufficienti, tuttavia. Negli ultimi venticinque anni sono stati spesi miliardi di euro con la programmazione dei fondi europei. E non sono mancati buoni programmi, almeno sulla carta. Evidentemente, si sta pagando la dispersione, la polverizzazione, l’uso clientelare di questi soldi e l’assenza di una strategia nazionale per le aree periferiche, dopo la fine dell’intervento straordinario. Una strategia che non si vede nemmeno nel Piano di Ripresa e Resilienza (PNRR), per quanto di questo strumento spesso si parli in termini enfatici.

Basta una cifra: alla voce «Interventi speciali per la coesione territoriale» sono previsti solo 1,75 miliardi, che devono bastare per tutto il Paese. Pensano di risolvere la questione meridionale con gli incentivi alle imprese. Anche dove non c’è domanda sufficiente per i loro prodotti.

Ma adesso c’è la campagna elettorale, tutti i candidati al nastro di partenza snocciolano i numeri delle varie emergenze e dicono che bisogna cambiare. Anche quelli che portano la responsabilità diretta ed indiretta di questo disastro.

Governare la Calabria non è facile, non esistono scorciatoie per uscire dal tunnel. Rompere però con l’attuale sistema di potere, in parte trasversale, sarebbe già un grande passo in avanti.